Uno dei difetti più diffusi tra gli italiani è la presunzione di poter mettere bocca su tutto, anzi di averne addirittura il diritto, senza chiedersi se si abbia o no la competenza, l’informazione per poterne parlare. A tutti sarà capitato di sentirsi consigliare questa o quella medicina per un raffreddore o per qualsiasi disturbo fisico. Io, in genere, rispondo: grazie, ma un medico da consultare già lo conosco. Si è poi continuamente afflitti, soprattutto nella rete, da improvvisati difensori della proprietà linguistica, scandalizzati dal proliferare di prestiti dall’inglese. Spesso da parte di chi non sa niente della lingua inglese. Ma costoro si sentono tuttavia autorizzati a parlare per il fatto, appunto, che parlano: come se parlare una lingua costituisse già di per sé una conferma di competenze linguistiche, e non richiedesse, invece, l’acquisizione della competenza un lungo e faticoso corso di studi. Non si nasce linguisti, si nasce che s’impara a palare qualche lingua. Lo studio della lingua è invece una disciplina che richiede, appunto, studio: non facile, lungo, duro – ma appassionante. Ora, per chiunque affronti lo studio di una lingua, o addirittura lo studio di che cosa sia una lingua, appare subito evidente che nessuna lingua è autarchica, libera cioè dagli influssi di altre lingue. Il nome del dio Apollo, in greco, non solo non è greco, ma non è nemmeno indoeuropeo. Eppure è una delle divinità principali dell’Olimpo ellenico.
Ma veniamo alla nostra lingua. Ci riuscite a evitare le parole garage, bar, smoking, mouse, computer, stop, pusher, puszta, permafrost, parquet, lobby, avatar. zenit. ecc. ecc.? Evidentemente no, perché non hanno un equivalente italiano, oppure perché nell’uso hanno sostituito l’equivalente italiano; qualcuno, anzi, è pure sbagliato, come smoking, parola che gli anglofoni usano per dire altro, per esempio smoking zone, area fumatori, e non l’abito da sera, che chiamano dinner jacket, e così via. Certo che c’è chi ne abusa, dei prestiti, perché gli risultano comodi o perché non conosce l’equivalente italiano. Ma da costoro è impossibile difendersi, sono gli stessi che usano male anche la lingua italiana, perché la conoscono poco, e dicono per esempio fare questo fare quello senza sforzarsi di trovare il verbo appropriato per l’azione che indicano con il verbo fare. Impossibile, di solito, difendersi dai cialtroni di qualunque specie. Ma non sono i cialtroni a determinare l’uso corretto di una lingua. E nemmeno, del resto, di come si guida per le strade. Semplicemente, i cialtroni sanno solo fare – ops! – compiere cialtronaggini. I prestiti inutili o superflui cadranno via da sé. Resteranno quelli insostituibili. O volete chiamare topolino ciò che chiamiamo mouse? autorimessa il garage? caffè il bar, senza pensare che un bar e un caffè non sono la stessa cosa, tanto è vero che anche gli anglofoni il caffè lo chiamano cafe, per esempio cat-cafe, il simpatico locale dove il caffè viene servito in mezzo ad adorabili felini? Ce ne sono anche fuori dell’area anglofona: per esempio a Vilnius, in Lituania e i lituani lo chiamano, anglicamente, cat-cafe, senza porsi il problema se sia correttamente lingua lituana. Il fatto è che la correttezza, e la proprietà o, meglio, la pertinenza linguistica non si incoraggia proibendo l’uso dei prestiti stranieri, indispensabile per qualsiasi comunicazione linguistica, bensì suggerendo e sollecitando la lettura degli scrittori, classici e moderni, di qualunque tipo, anche di letteratura scientifica (in Italia assai poco diffusa), e promuovendo lo studio di altre lingue, la cui conoscenza accrescerà, in primo luogo, la consapevolezza dell’uso di prestiti e, in secondo luogo, abituerà la mente a pensare anche in altro modo da quello abituale della propria lingua. Contrariamente a ciò che molti credono, infatti, la conoscenza di altre lingue, comprese quelle classiche, il greco e il latino, aumenta la conoscenza anche della propria lingua, fa gustare le differenze, riconoscere che esistono parole, e dunque concetti, intraducibili, che possiamo indicare solo con le parole dell’altra lingua, per esempio il tedesco Heimat non ha corrispondente italiano, come non lo ha l’inglese spleen, che il francese Baudelaire – un raffinatissimo conoscitore della propria lingua, il francese, la cui proprietà linguistica ha confronti quasi solo in Montaigne, Racine o Proust – mette come titolo ad alcune delle sue poesie più belle. E già che siamo in clima “decadente”: che parola italiana usereste per dandy? o per cocotte – che non è la mignotta? Insomma, al solito, ciò che infastidisce non è l’uso dei prestiti, ma il suo uso irriflessivo, sconsiderato, che nasce fondamentalmente da una imperfetta conoscenza sia della propria che dell’altrui lingua. E la conoscenza imperfetta o addirittura assente non si guarisce proibendo a caso questo o quell’altro prestito, bensì approfondendo la conoscenza sia della propria che delle altre lingue. E anzi più lingue si conoscono e si adoperano nella conversazione e nella scrittura e più appropriato, pertinente, risulterà l’uso della propria lingua. Leggete, leggete, leggete. E imparate le lingue. Fino a qualche decennio fa nell’ignoranza delle altre lingue ci facevano compagnia francesi e spagnoli, oggi non più. Siamo rimasti quasi i soli, noi italiani, in Europa, ad avere non solo poca dimestichezza con le altre lingue, ma perfino con la propria. I nostri personaggi politici all’estero – salvo eccezioni, che ci sono – fanno ben misera figura rispetto ai personaggi politici degli altri paesi. Qualcuno, quando viene in Italia, si rivolge a noi addirittura parlando italiano. Come recentemente ha fatto un uomo politico albanese. Ve l’immaginate un politico italiano che andando a Tirana si mette a parlare albanese? Eppure l’Impero Mussoliniano (le maiuscole sono derisorie – come di dovere) comprendeva anche l’Albania. Ma di che meravigliarsi se quando lo stesso Impero s’impossessò del Dodecanneso – nel Museo del Risorgimento di Torino, c’è scritto, appena si entra, “isole italiane dell’Egeo” (sic!) – quasi nessuno degli occupanti sapeva parlare greco (ma questa è un’altra storia, che sarebbe bene richiamare alla memoria scordarella degli italiani: una lapide in un porticciolo di Itaca ricorda come la popolazione dell’isola respingesse l’assalto di una nave da guerra italiana).
Concludo con un’affermazione scritta da me tempo fa e che sembra abbia colpito molti: i muri, qualsiasi muro, sono sempre inopportuni, e soprattutto si rivelano sempre inadeguati, aggiungo, a contenere l’incontenibile; anche i muri linguistici sono inopportuni, non solo non difendono la proprietà di una lingua – qualcuno dice con espressione orrida la sua “purezza” – ma anzi ne impoverisce la capacità di raccontare il mondo e immiserisce i suoi strumenti espressivi. O vogliamo un mondo di monadi linguistiche? Stiamo già procedendo verso un mondo di monadi consumatrici. La varietà e la ricchezza di una lingua, la sua capacità di confrontarsi con le altre lingue, può essere invece uno strumento appropriato per aprirsi alla conoscenza degli altri, invece di chiuderci nella nostra aiuola di feroci distruttori di noi stessi.
Ma Shakespeare lo dice meglio di chiunque altri, e lo dice in inglese! Il “pensiero” è quello del declino di tutte le cose.
This thought is as a death, which cannot choose
But weep to have that which it fears to lose.
(Questo pensiero è come una morte, che non può scegliere
se non piangere di avere ciò che ha paura di perdere).
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