Un’altra edizione delle sinfonie di Schubert, si dirà. E spesso, a certe pubblicazioni, mi sorprendo anch’io ad esclamare un fastidio simile: un altro Beethoven un altro Mozart, come mancassero compositori da interpretare. Per dovere di rispetto della verità, poi, però, comincio ad ascoltare. Se non altro perché non mi piace sparlare di ciò che non conosco. Bastano pochi minuti perché mi renda conto di trovarmi a petto di un’esperienza nuova. Il cofanetto mi è arrivato solo qualche mese fa. Ma il tempo trascorso dalla sua pubblicazione nel 2016 non ne ha affatto ridimensionato la novità, l’impostazione interpretativa delle sinfonie di Schubert è davvero nuova, in qualche modo sono quasi un saggio su che cosa abbia davvero composto Schubert. Queste brevi note, comunque, sono soltanto un anticipo di una riflessione critica che spero di sviluppare quanto prima. Nelle monografie storiche dedicate alla figura di Schubert, le prime sinfonie, come i primi quartetti, e in genere tutta l’opera giovanile, a esclusione dei Lieder, sono state giudicate, a mio avviso, con frettolosa lettura, compromessa dal pregiudizio che si tratti solo di opere di apprendistato. Valga per tutti il giudizio drastico di Alfred Einstein: “Dalle note che aggiunse al commento dell’opera nell’Edizione Completa, sappiamo che cosa pensasse di questo movimento – il primo della seconda sinfonia – Brahms, quel Brahms che tanto profondamente capiva e sentiva la concisione. Egli non solo tollera, ma addirittura ama la noncuranza di Schubert … ” Noncuranza? Andiamo avanti. Einstein scrive, poche pagine dopo: “Considerata nel suo insieme, e vista accanto alla mole del suo lavoro operistico, la musica strumentale che Schubert compose in quest’anno, per altro così fecondo, ci appare una produzione insignificante … ” (A. Einstein, Schubert, 1950, trad. it. di Donatella Teatini, Edizioni Accademia, 1970, pagg. 105 e 108). Einstein segue un giudizio tradizionale, diffuso in un novecento che vedeva in Beethoven il culmine di un’evoluzione del linguaggio musicale. Brahms non si poneva questi problemi. E aveva ragione. Non a caso, anzi, curò un’edizione integrale delle opere di Schubert. Ma, prima di Brahms, aveva ragione Schumann, quando mette l’attenzione sul fatto che Schubert sia il più grande compositore dell’epoca di Beethoven e proprio perché non segue le orme di Beethoven. Sia per Schumann, sia per Brahms, e naturalmente per noi, Schubert rivela sé stesso già nelle opere giovanili e non solo nei Lieder, come era convinzione diffusa, ma nelle sinfonie, nei quartetti, nelle sonate per pianoforte. Quelli che a Einstein appare “noncuranza”, sembrano procedimenti impacciati, sono in realtà l’individuazione di un pensiero musicale che pur allacciandosi a Haydn a Mozart e, soprattutto, al primo Beethoven, già configurano giri di modulazione, di variazione e rimodellamento dei temi, proprio come avviene in natura tra gli elementi, che si modificano, si adattano alle situazioni. Che nasca da qui la percezione immediata di un’estrema naturalezza quando si ascolta la musica di Schubert? Procedimenti simili si affermeranno comunque decisamente nei successivi capolavori: sono dunque, in queste opere giovanili, la ricerca già di un distanziamento dai modelli. Che tuttavia restano presenti, ma come stimolo per altri e diversi sviluppi. Il difetto, infatti, di una lettura che guarda da dove Schubert prende piuttosto che guardare dove Schubert va, sta nel costringere l’invenzione musicale schubertiana dentro schemi che non le appartengono. Certo che Schubert ha presenti i modelli di Haydn, di Mozart e di Beethoven: sono i compositori più nuovi del suo tempo e se mai va messa in rilievo l’intelligenza del giovane compositore nello scegliere i modelli che più gli convengono. Non c’è Hummel, non c’è Weber, non c’è Spohr, che pure in qualche modo gli è più affine. Si tratta dello stesso errore di prospettiva di quando si sostiene che il primo stile di Beethoven subisce pesantemente il peso di Haydn e di Mozart. E di chi, se no? Ma proprio Haydn e Mozart mostrano a Beethoven la via per un percorso diverso, che parte da loro, ma diverso. Di Haydn e Mozart Beethoven “imita” il pensiero musicale non lo stile. Non diversamente fa Schubert. Quello che ai critici e agli storici appare impaccio ecco che allora che diventa esperimento di un’altra via. Faccio un solo esempio. Addirittura dalla sua prima sinfonia, in re maggiore. Dal minuetto. Intanto di minuetto ha quasi solo il nome. L’andamento è piuttosto di una danza tedesca. Come già spesso in Haydn. Ma qui direi con maggiore sfacciataggine. Nel senso che il ritmo della danza non è particolarmente caratteristico, ma scivola via con una naturalezza quasi di valzer, tant’è vero che l’unità ritmica occupa due battute, invece di una. Il miracolo però sta nel trio. Il tema è impostato sulla successione di una quarta seguita da una terza cui poi segue una figurazione di sei crome che coprono tutta la terza battuta e si muovono nell’ambito di una terza e poi di una quinta, precedute, nella battuta precedente, da due crome che intonano una seconda discendente, e concluse nella battuta quarta dall’ascesa di due terze. Quest’ascesa di due terze forma il tema della seconda sezione del trio. Ma Schubert la prolunga di una battuta nella quinta e sesta battuta. La seconda discendente non è dimenticata, ma, ripetuta nove volte, costituisce il motto che conclude la frase. Dopo di che si ha la riesposizione del tema della prima sezione, che a questo punto acquista un senso nuovo proprio per l’insistenza della successione di terze, che così acquistano, ricordando tutta l’evoluzione del trio, il carattere di una cellula melodica generatrice. Vi sembra “insignificante” tutto questo? Ma tutta la sinfonia, opera di un compositore sedicenne, è costruita con questa attenzione.
Ora, Antonello Mnacorda, a capo della splendida orchestra della Kammerakademie Potsdam (Accademia da camera di Potsdam), sembra volerci suggerire proprio questo: che lo Schubert giovanile è già, non solo in nuce, ma anzi, spesso del tutto, il compositore maturo che conosciamo. Del resto al ragazzo sedicenne restano appena altri 15 anni di vita. Ciò che Schubert individua nel trio del minuetto della prima sinfonia è il cartello indicatore di una strada che percorrerà fino alla fine e con sempre maggiore e radicale consapevolezza, vale a dire con sempre più insistita sosta sulle “lungaggini”. Quella “lungaggine” individuata da Schumann come “divina” e che non è altro che un abbandonarsi via via all’improvvisazione del canto. La melodia che piace la si vuole godere e rigodere più volte. Ascoltare perciò tutte le sinfonie dalla prima all’ultima, solo abbozzata, la Decima, diventa, per Manacorda, e per l’ascoltatore, un viaggio avventuroso in una terra in cui perfino l’angoscia della morte – incredibilmente avvertita, con il suo caratteristico ritmo dattilico – quello dell’allegretto della Settima di Beethoven, per intenderci – , già nella giovanile prima sinfonia – è trasfigurata nella bellezza del canto. Poi ciascuno sceglierà la sua pagina preferita o più amata. l’Incompiuta, certo. La Grande in do maggiore. Ma la Piccola, sempre in do, è molto più di un’introduzione a quella intricatissima complessità sinfonica. L’abbozzo dell’Andante della Decima – ristrumentato da Brian Newbould, Schubert ce ne ha lasciato l’abbozzo per pianoforte – prelude già a Mahler. Ecco, altrove invece ci sembra di avvertire echi di Mendelssohn, di Brahms, di Schumann. Ma non sono echi e non sono nemmeno prefigurazioni. Nessun compositore prefigura compositori venturi. Più semplicemente, i compositori che vengono dopo di lui lo leggono con occhi nuovi, anzi con nuove orecchie, e sviluppano ciò che nella partitura del loro predecessore sembra, ed è, una visione affine, un’invenzione somigliante, un’avventura condivisa, uno scavo in zone non ancora sondate. E che nel primo cd la Prima sinfonia sia accostata all’Andante della Decima è un folgorante squarcio di assimilazione: prefigurare nell’esultanza giovanile – ma già increspata da sinistri presagi – l’esito tragico della conclusione, o dovremmo dire piuttosto dell’interruzione. In qualunque momento arrivi la morte non conclude mai niente: interrompe. Ma molti altri accostamenti sono possibili. Li lasciamo all’estro dell’ascoltatore. Magari facendosi suggestionare, all’inizio, dagli accostamenti forse casuali, ma interessanti dei cd: del primo si è detto. Gli altri quattro: 2, seconda e quarta: 3, terza e settima (incompiuta), 4, quinta e sesta; 5, ottava La Grande. Qualcuno sarà disorientato dalla numerazione. Perché la settima D 729, in mi maggiore-minore, non completata da Schubert. quanto alla strumentazione, qui non compare, e compare come settima l’Incompiuta, che di solito è catalogata invece come ottava, e quella che qui è detta ottava è invece in genere considerata nona. Andrebbe probabilmente in una ristampa del cofanetto corretta la numerazione. Perché la sinfonia che manca è proprio quella che occupa il settimo posto. E quelle catalogate come settima e ottava sono in realtà, rispettivamente, la ottava e la nona. Altrimenti non si spiega nemmeno il numero di decima per l’andante del primo cd. Sugli abbozzi di questa ultima sinfonia schubertiana Luciano Berio ha costruito nel 1990 una sorta di fantasma che ritorna: Rendering. Pagina affascinante in cui il compositore non si sostituisce a Schubert, ma dove nel manoscritto mancano appigli l’orchestra naviga in cluster confusi, come un’architettura antica che nella ricostruzione moderna mostri con materiale diverso dall’antico le parti mancanti. E se Antonello Manacorda in un futuro, che sarà lui a scegliere, volesse regalarci, oltre all’esecuzione della ricostruita settima, anche quest’ultimo omaggio novecentesco a Schubert? Chi sa, l’immagine del compositore, gigantesca, si proietterebbe fino a noi, fino a presentarsi come un nostro contemporaneo. Ma se, compositore della fine, di tutte le catastrofi di una fine, il prefiguratore di un mondo di doppi, di sosia, di robot (Der Doppelgänger), il cantore di viaggi invernali, fosse in realtà veramente un nostro contemporaneo? Antonello Manacorda, almeno, ce lo presenta così. C’era già stato Claudio Abbado, nel 1988, a indicarci la strada, con un prezioso cofanetto della Deutsche Grammophon. Manacorda coglie la sfida, prosegue su quella via. E ciò che era una premonizione, ora si fa certezza: Schubert è un nostro contemporaneo.
Si volesse, però, circoscrivere in una descrizione o in un resoconto che cosa caratterizzi l’interpretazione di Schubert che Antonello Manacorda ci offre in queste registrazioni, penso che il fatto che le caratterizza sia l’evidenza con cui l’orchestra evita l’enfasi sinfonica, e si presenti piuttosto come un’orchestra da camera. Il che non vuol dire affatto che eviti l’afflato corale, ma che si fa sentire sempre, anche nel coro, la differenziazione delle voci. Come in un quartetto, il che coglie un aspetto fondamentale della scrittura di Schubert. Nella sua vita Schubert raramente ebbe modo di ascoltare il suono dell’orchestra che aveva immaginato. Tanto più sorprende la visionaria scrittura strumentale per esempio dell’Incompiuta, o della Sinfonia in do maggiore. Si ascolti di quest’ultima l’attacco dell’Andante con moto. L’attacco è davvero quello di un quartetto. E il ritmo della melodia che prevarrà si fa sentire nei bassi. Per sette battute. All’ottava battuta entra l’oboe che riprende la melodia e la dilata. Per nove battute (si noti l’irregolarità della scansione, e tuttavia l’orecchio percepisce un andamento regolare: Schubert ha assimilato la lezione di Mozart). Il discorso continua con la frammentazione, a botta e risposta, delle sezioni orchestrali. Alla 30a battuta esplode il tutti, che però non coinvolge subito l’intera orchestra, ma continua a far dialogare tra loro le sue sezioni. Il movimento continua così, con un assottigliarsi e un ispessirsi dell’orchestra. È già prefigurato Bruckner. O, più esattamente, Bruckner impara da qui. Ma, del resto la sinfonia si apre con un a solo dei corni. Che scandiscono per otto battute (qui l’equilibrio tradizionale è rispettato) il ritmo dattilico della marcia funebre, che è il ritmo principale di tutta la sinfonia. Mahler? Ma perché no? È Mahler tuttavia che attinge, non Schubert che prefigura. Schubert fa Schubert. Ogni ascoltatore potrà controllare sulla partitura e all’ascolto dei cd. Una scrittura simile si apprende a casa, suonando musica da camera: sonate per pianoforte e violino, trii, quartetti, quintetti. Ottetti! Schubert ne compone uno meraviglioso nel 1824. Gli restano solo quattro anni di vita. Il modello è certo il Settimino di Beethoven. Ma Schubert si lascia il Settecento alla spalle. Ne trattiene solo il piacere del gioco individuale degli strumenti quando suonano in gruppo. Ecco, è questo piacere che Manacorda ci restituisce. Non solo nelle grandissime e tarde sinfonie, ma fin dalla prima. Il massiccio Tutti dell’Adagio introduttivo si stempera poi nell’attacco da camera dell’Allegro vivace. La scala ascendente dei primi violini è punteggiata dagli incisi dei legni, È come se gli strumenti dell’orchestra si rincorressero senza riuscire che a tratti a partire tutti insieme. Questa è già un’orchestra schubertiana. Ed è la prima, composta a 16 anni. Quest’idea cameristica dell’orchestra è tipica non già solo di Schubert, che la eredita dal tardo settecento, ma di tutti i primi decenni dell’Ottocento. La si ritrova in Mendelssohn, in Schumann (alla faccia di chi ancora si ostina a dire che non sa strumentare). Bisogna aspettare Brahms, e Wagner, perché l’orchestra acquisti la compattezza che siamo soliti attribuirle. E tuttavia non definitivamente. Nemmeno in Wagner. Basti per tutti l’esempio del lungo lamento di Marke nel terzo atto del Tristano. O l’attacco stesso del preludio del primo atto. E stiamo palando del Tristano. Ma perfino Chopin, e soprattutto Liszt, mantengono nei loro concerti per pianoforte questo trattamento cameristico dell’orchestra. Esemplare il momento in cui, nel secondo concerto di Liszt, il pianoforte dialoga con il solo violoncello. Manacorda mantiene questo carattere per tutte le sinfonie. Di un virtuosismo strumentale strabiliante l’ultimo tempo della terza, una tarantella vorticosa. Ma da che cosa nasce questo bisogno di non gonfiare le gote, di mantenere l’orchestra dentro un gioco di strumenti che si confrontano e non di strumenti che si assommano? Da ciò che Trasybulos G. Georgiades definisce chiaramente nel suo Schubert, Musica e Lirica, Roma Astrolabio, 2012 (ed. originale, Schubert, Musik und Lyrik, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1992): la poesia, il canto. Tra linguaggio e musica in Schubert c’è non solo affinità, ma una vera e propria simbiosi. Schubert è “cantore”. Ma alla maniera dei poeti, come si dice dei poeti: Cantami, o Diva … Come i poeti, Schubert è cantore, canta. Il suono non è qualcosa di estraneo al linguaggio: è il linguaggio nella sua materialità originaria. Si badi: Schubert non confonde affatto musica e linguaggio né, come poi i romantici, crede che la musica sia una forma di linguaggio. Semplicemente s’insinua tra musica e linguaggio in quell’interstizio che appartiene a entrambi, il suono. E sugli strumenti canta come se avessero parole, nei Lieder toglie alla parola la sua specificità di linguaggio e la denatura – o, meglio, la riscopre – come puro suono. Da qui l’articolazione inesauribile dei ritmi, dell’armonia, delle melodie. Manacorda sembra possederne il segreto. Non lo troverete ripetere mai una melodia come la prima volta. Questo suo Schubert si rinnova di battuta in battuta, il discorso comincia con il primo attacco della prima cellula ritmica e melodica insieme, e continua ininterrotta fino a che l’ultimo accordo conclude il flusso sonoro. Smentisce, proprio con questa continuità del flusso sonoro, ogni ipotesi di condotta impacciata, inesperta, “insignificante”, come la definisce Alfred Einstein, che caratterizzerebbe le prime opere. Tutto sta a entrare nel laboratorio del compositore. E Manacorda ci entra, ce ne restituisce, come avvenisse sotto i nostri occhi, anzi nelle nostre orecchie, il percorso che il suono compie nella fantasia del compositore per articolarsi in musica. Ci sarebbe molto altro da osservare. Ma fermiamoci qui. Accenniamo solo al fato che una simile impostazione dell’interpretazione della musica di Schubert attribuisce, e non potrebbe essere altrimenti, anche al timbro degli strumenti una funzione strutturale. Ascoltate il clarinetto che attacca l’allegro con brio della prima sinfonia. O i corni che attaccano la Grande e, nella stessa sinfonia l’oboe all’inizio dell’Andante con moto. Il sussurro minaccioso dei violoncelli e dei contrabbassi all’inizio dell’Incompiuta e poi l’emergere della melodia di oboi e clarinetti all’unisono. Gli esempi sono tanti quanto tutte intere le sinfonie. A questo punto, dimenticate le analisi. Inserite il cd nel lettore. E ascoltate. Dal primo all’ultimo.
Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Continuando la navigazione ne acconsenti all' utilizzo.OkLeggi di più