Un romanzo postumo

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Ho appena finito di leggere un romanzo postumo di Rodolfo Fogwill, splendido scrittore argentino nato nel 1941 e morto nel 2010. Il manoscritto, del 1981, è stato pubblicato dagli eredi nel 2014, per Alfaguara. S’intitola Nuestro modo de vida, il nostro stile di vita, e per confessione dello scrittore è modellato su La luz argentina, la luce argentina, di César Aira. Gli italiani di Fogwill conoscono Los pichiciegos, tradotto e pubblicato da Sur con il titolo Scene da una battaglia sotterranea, che nell’originale è il sottotitolo del romanzo. Il termine pichiciego designa un animale della famiglia degli armadilli che vive in buche scavate nel terreno. In italiano clamidoforo troncato. Il termine scientifico è Chlamyphorus truncatus. Nel romanzo i personaggi lo chiamano semplicemente pichi, al plurale pichis (pronunciare pici, picis). Romanzo terribile che immagina la vita di alcuni disertori durante la guerra delle Malvine (Falklands), che vivono in trincee sotterranee per sfuggire sia agli inglesi sia agli ufficiali dell’esercito argentino.

Rodolfo Fogwill

Quando Fogwill scrive Nuestro modo de vida mancano due anni alla fine della dittatura militare. Per questo non pubblica il romanzo e lo lascia nel cassetto. Poi, forse, avere pubblicato Los pichiciegos deve avergli fatto pensare che il romanzo non fosse più attuale, l’Argentina era diventata un’altra. Ma nel racconto l’oppressione, tuttavia, non si sente che di sfuggita. Si sente invece l’aridità di una piccola borghesia rampante che della dittatura è stata la base sociale e la piattaforma di lancio. Il protagonista Fernando non ha altri orizzonti che il lavoro nella sua azienda, la soddisfazione degli avanzamenti di carriera, visualizzati dal possesso di una nuova Ford azzurra, regalatagli dall’azienda, e dai piccoli traffici di tangenti sottobanco ottenute trafficando con aziende giapponesi. La moglie Rita non ha prospettive più solide. Organizza serata di raccolta di oggetti usati, per approfittarne e appropriarsi degli oggetti più allettanti. Fa l’amore con il compagno quasi più per dovere coniugale che per diletto. E lui fa lo stesso, il piacere lo cerca in Elena, la compagna di un amico. La realtà esterna non li sfiora. Salvo che negli intoppi dell’autostrada, nei supermercati vuoti a metà mese perché la gente ha finito i soldi, nelle incursioni notturne di misteriosi guerriglieri che non rubano niente, nell’allagamento dei quartieri periferici, perché la costruzione di una nuova autostrada ha otturato i tubi di scarico e l’acqua delle piogge allaga le strade, sommerge le case, copre automobili, giardini. Due mondi paralleli che non s’incontrano, o meglio: il mondo dei perdenti è guardato dai vincenti che si affacciano dal bordo dell’autostrada a guardare i quartieri allagati. Fernando, di quest’altra realtà, ne percepisce l’esistenza nell’irrequietezza dei suoi pensieri. Ma il circolo delle abitudini e delle ambizioni non è mai scavalcato. Lui e l’amico si portano a letto vicendevolmente la donna dell’altro, ma senza drammi. E, soprattutto, senza amore: soddisfatti entrambi di avere una donna a portata di mano. Forse perfino lo sanno di condividerle, ma gli sta bene così. È un romanzo amaro, bellissimo, scritto con una prosa assai variabile – dalle frasi brevissime, un segmento, talora anche senza verbo, al lungo periodo che si distende per una intera pagina. Quasi a voler rappresentare nello stile narrativo la complessità inafferrabile del reale. È giudicato dalla critica argentina un capolavoro del postmoderno. Ora che il postmoderno è concluso, il romanzo c’insegna che non sono certo le formule a salvare la scrittura, ma la libertà con cui si affronta la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra, mescolando lo stile dell’una e dell’altra. La realtà non è univoca, ci dice Fogwill, esterno e interno non sempre s’incontrano. La bolla in cui vivono Fernando, la sua donna Rita, e i suoi amici, sembra isolata dall’orrore dei desaparecidos, della dittatura, salvo il fuggevole incontro notturno con i terroristi, che sono entrati nella loro casa e li trovano al ritorno da una cena in un ristorante chic di Buenos Aires. Fanno impressione le cifre della svalutazione galoppante del peso, misurato a migliaia e a milioni, come se fossero decine e centinaia. Un altro segno dell’incrinatura dei tempi. Lo scrittore non compare mai come marionettista dei personaggi, lascia che le marionette funzionino da marionette. Ma Fogwill non fa fatica a trovare lo stile giusto, per questa storia di una disappartenenza, e non gli è difficile in una letteratura, come quella argentina, che da sempre, fin dai suoi inizi – si pensi a quel capolavoro, a metà dell’Ottocento, che è El matadero, il mattatoio, di Echeverría, e anche allora c’era una dittatura, quella di Rosas, Echeverría muore in esilio a Montevideo – in una letteratura, insomma, che ha sempre affrontato l’inafferrabilità del reale e la necessità d’inventare uno stile che racconti questa inafferrabilità. Quando invece addirittura non inventa una realtà parallela nel Martín Fierro di José Hernández o  nella Invención de Morel di Adolfo Bioy Casares. Borges non nasce in un deserto. Anzi, una lettura più attenta del romanzo, al di là della situazione politica del momento, coglie, può darsi, la perenne dissimmetria che tormenta gli uomini tra ciò che vivono e ciò che vorrebbero vivere, tra la situazione di un gruppo e di una classe sociale e la situazione dell’intero paese. E quale situazione, di quale uomo, non soffre la dissomiglianza, l’inadattabilità tra il proprio io e la storia che è costretto a vivere, tra la propria idea di società e quella reale in cui si trova a vivere? La stessa storia dell’Argentina sembra quasi una esemplificazione da manuale politico di questa dissimmetria, di questa dissomiglianza. Sarà per questo che gli scrittori argentini sembrano più bravi di chiunque altro scrittore di altri paesi a raccontare l’infelicità dell’inadattato, dell’insoddisfatto, del tradito, in una parola dell’estraneo al mondo in cui vive. Ma lo scrittore argentino lo fa senza aggrottare le ciglia, senza ebfasi, senza smorfie, perfino divertendosi, con una leggerezza che è la cifra, sembra, precipua dell’arte argentina, anche nel cinema. E il tango, mi si potrebbe obiettare? Il tango è la recita tragica di questa leggerezza. Non sarebbe quello che è se a strutturarlo, sotto, non ci fosse appunto la leggerezza di chi vede come un’ombra, un soffio, anche il dolore della vita. Lo dice perfettamente il tango Volver, tornare, di Carlos Gardel:

Con la frente marchita
Las nieves del tiempo platearon mi sien
Sentir
Que es un soplo la vida
Que veinte años no es nada.

Con la fronte marcita / Le nevi del tempo modellarono le mie tempie / Sentire / Che è un soffio la vita / Che venti anni non è niente.

Gli scrittori italiani di oggi, che sembrano spesso persi a guardarsi l’ombelico o a inseguire mode fuggitive, avrebbero molto da apprendere da questi scrittori. Anche dalla loro prolificità.

César Aira

César Aira ha scritto un centinaio di romanzi. Può scriverne anche due all’anno. E poi ci sono i racconti, i saggi, bellissimi i due sull’arte contemporanea. Gli scrittori argentini c’insegnano che si può oggettivare anche lo sguardo sul proprio ombelico. E perfino l’autobiografa, o, come oggi si ama dire, l’autoficcion (gli argentini la chiamano autoficción, ma bisogna tenere presente che in spagnolo ficción significa sia finzione sia invenzione sia racconto), si fa, rispettando l’etimologia della parola, racconto oggettivo che può essere reale o inventato.

Sergio Blanco

Un teatrante di genio come Sergio Blanco, anche lui rioplatense, porteño, ma di Montevideo, ne fa addirittura un manifesto di poetica. I suoi lavori teatrali sono stati recentemente tradotti in italiano (Sergio Blanco, Autofinzione. L’ingegneria dell’io, Cue Press, 2019). leggerli è un’esperienza di vita, oltre che un godimento teatrale. E chi voglia leggerli in spagnolo, il libro s’intitola autoficciones (tutto minuscolo, rigorosamente!), Punto de Vista Editores, 2018. Gli scrittori italiani sembrano, invece, fare per lo più il contrario, psicologizzare, interiorizzare enfaticamente tutto, anche lo sguardo sul mondo, come se tutto il mondo fosse solo una falange del proprio io. Con qualche eccezione, anche formidabile, che c’è, ma che non nomino per non suscitare l’invidia e le rimostranze degli esclusi.

- 06/07/2022
TAGS: critica

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