Mi scontro talora con chi mi accusa di dare rilievo a aspetti, fenomeni insignificanti, e di perdere di vista l’essenziale: di puntare lo sguardo sull’accessorio e di trascurare la concretezza della realtà. Ciò accade soprattutto quando insisto sul rispetto rigoroso delle norme formali di un ragionamento (sfugge che, sotto, in realtà, vi soggiace l’attenzione alle strutture sintattiche del discorso, la cui libertà è limitata dal rispetto di procedimenti che rendano comprensibile ciò che si viene dicendo o scrivendo). In parole povere, la struttura formale del linguaggio è percepita da molti, oggi, in Italia, come inessenziale, accessoria: tanto, si dice, basta capirsi, è sufficiente dire ciò che davvero conta, i contenuti di un discorso sono più importanti delle forme del discorso che ne parla, si conclude, supponendo quindi che la cosa, i fatti, s’impongano da sé, poco importa con che tipo di discorso si raccontino. È la tradizionale insofferenza degli italiani per tutto ciò che non sia evidenza realistica, cosa che si tocca con le mani. Non a caso la nostra letteratura è povera di divagazioni fantastiche, la nostra pittura ha pressoché ignorato il surrealismo, e una filosofia, una scienza che si spingano a estreme astrazioni di pensiero hanno trovato scarsa accondiscendenza. Il cinema, se si eccettua il caso straordinario di Fellini, resta attaccato alla riproduzione realistica di vicende reali o verosimili. Si dimentica, o si trascura, in questo modo, che invece proprio il non rispettare o trascurare le strutture formali del discorso possa rendere ambiguo, contraddittorio, incomprensibile lo stesso discorso. Non è vero, infatti, che ciò che conta è la cosa che si dice, qualunque sia il modo con cui la si dica. Il modo con cui si dice una cosa può renderla comprensibile o incomprensibile, vera o falsa. Questa insofferenza per le regole formali – regole che esistono e sono anzi indispensabili anche in giurisprudenza, nelle scienze, in ogni tipo di ricerca scientifica, comprese quelle che riguardano le cosiddette scienze umane, indispensabili, inoltre, più che mai nella politica – è tipica di una società che si appella di nuovo al principio di autorità e non a quello dell’oggettiva verità o quanto meno affidabilità del discorso: chi afferma che più importante di una verifica della veridicità di ciò che si dice sia sapere chi dice questo o quello, significa affidare la veridicità di un’affermazione all’ideologia, non al riscontro con la realtà, perché si sottintende che se condivido l’ideologia di chi afferma questa o quella cosa, do anche per scontato che ciò che afferma sia vero, perché se ne condivido l’ideologia ne condivido anche le affermazioni, suppongo cioè che costui non possa mentire, e dunque non mi preoccupo di verificare se mi adduca prove fasulle di ciò che dice, in quanto anche nel caso che mi adduca prove fasulle, io non lo so, non l’ho verificato, e non sono dunque le prove a certificarmi la veridicità di ciò che afferma, bensì il fatto che sia lui a dirmi che quelle sono le prove della veridicità delle sue affermazioni, e così anche se costruite, se non veritiere, le prove diventano automaticamente probanti, per il fatto di essere affermate da persona di cui mi fido ciecamente: la verità, insomma, non è dimostrata dall’idea confortata dal confronto con la realtà, ma è l’ideologia di chi afferma che quella cosa è vera. Se costui dice qualcosa di diverso dalle cose che documentano versioni più attendibili dei fatti, diventa però, per il fatto stesso di proporre una versione alternativa a quella realmente documentata, più affidabile di qualunque discorso che ne dimostri la fallacia, perché le fonti documentate sono il main stream e come ogni main stream fallaci per definizione, quasi una petizione di principio, mentre colui che dissente, per il fatto stesso di essere un dissenziente è automaticamente veritiero, si dà per scontato che la documentazione diversa, e più affidabile, sia invece falsa, senza verificare se ciò sia vero o no, perché è l’autorità del dissenziente a certificare che ciò che afferma una documentazione diversa dalla sua è per ciò stesso falso. Sfugge che la veridicità di una affermazione non è attestata dall’autorità di chi l’afferma, ma dal riscontro con i fatti. Il rovescio della medaglia, in una impostazione così personalizzata dell’attendibilità di un discorso, e dunque in una impostazione di fatto autoritaria, della cosa affermata come verità solo perché veritiero chi l’afferma, sta nel fatto che quando ci si trova a discutere con un avversario che ci confuta e ci smentisce, non si attua lo stesso suo procedimento di confutare la veridicità delle affermazioni, bensì si sostituisce alla confutazione, legittima, e necessaria, di ciò che afferma l’avversario, la sua demonizzazione, si confuta, per così dire, la persona, chi afferma, e non la sua affermazione. È una deriva sociale pericolosa. Perché una società che non sa più riconoscere la credibilità, veridicità di un discorso dalla correttezza della sua formulazione – e di conseguenza dall’attendibilità delle fonti consultate e discusse, materia di partenza e premessa indispensabile per ogni discorso sul reale e non sulle ideologie che vorrebbero modificare il reale – è una società già predisposta a ubbidire al primo che le si presenti come testimone e assertore della verità assoluta. In Italia il crinale pende già pericolosamente verso il giudizio sulla persona che dice più che su che cosa che dice. Tutti i fascismi, tutte le dittature, i regimi autoritari di ogni specie cominciano così. Di destra come di sinistra. Anzi, sta accadendo che il radicalismo autoritario delle destre si rispecchi in quello di una certa sinistra, entrambe si appellano infatti non ad argomenti, argomentazioni, analisi e dimostrazione della corrispondenza tra l’analisi e la realtà analizzata, ma a verità indiscusse, predeterminate, preformulate, che non ammettono contraddittorio. L’avversario è inaffidabile a prescindere, per il fatto, solo per il fatto stesso che è un avversario, e dunque un mentitore, una “merda” – parola che ricorre con frequenza, e non solo nei social, quando si attacca un avversario. L’insulto così sostituisce la confutazione. E quanti più insultano, quanto più cresce il numero degli insultanti, tanto più finisce per diventare prova di un movimento democratico il fatto che la massa degli insultanti superi l’esiguità numerica degli insultati. Democratica non è più la corrispondenza di un discorso alla realtà, o quanto meno la sua probabilità di essere un discorso veritiero, ma la quantità di giudicanti che ritengono vera anche una cosa falsa, purché sia una maggioranza a sostenerla, o una minoranza alternativa al main stream, una minoranza o maggioranza che sia, la quale comunque, per il fatto stesso di proporsi come alternativa, non senta la necessità di dimostrare la veridicità delle proprie affermazioni. Cerchiamo allora di capire che cosa sia il procedimento che attesta la veridicità delle affermazioni, al di là del riscontro con i fatti, che è comunque sempre la prima operazione da condurre. Ma che non basta. Perché posso anche distorcere, o usare male, i fatti riscontrati o quella che propongo come affermazione inconfutabile di fatti accertati.
In genere si adoperano paralogismi, o falsi sillogismi, o paradossi, che hanno l’apparenza della veridicità, ma colpiscono più l’immaginazione che l’intelletto. Un falso sillogismo o un paralogismo è quello in cui uno dei termini dell’argomentazione o è falso o non è documentato o non è dimostrato. Alessandro Orsini, per esempio, ammiratissimo perché sembra voce fuori del coro, ne fa un largo uso. I paralogismi, i paradossi colpiscono l’immaginazione e l’emotività di chi ascolta e per questo sono usati dagli oratori, soprattutto politici, ma non riescono a fondare un’argomentazione seria, che documenti il vero o dimostri la veridicità di ciò che si afferma. Faccio un solo esempio: Orsini dice che è meglio che i bambini restino vivi sotto una dittatura invece che muoiano in una democrazia per una guerra. Intanto non è specificato, nel caso di una guerra, chi scateni questa guerra, se una democrazia o una dittatura. Nel caso dell’Ucraina aggredita dalla Russia a scatenarla è di fatto una dittatura, quella di Putin e dunque le dittature uccidono anche i bambini. Inoltre la storia delle dittature è piena di eventi in cui sono uccisi bambini. In Argentina la dittatura ha ucciso anche i bambini o li ha sottratti alle madri ammazzate nella prigionia o scaraventate dagli aerei nel Rio de la Plata, erano adottati dagli assassini e si nascondeva loro che le loro madri erano state ammazzate. L’esercito di Pol Pot in Cambogia ammazzava tutti, anche i bambini. I bambini sono ammazzati soprattutto dai dittatori, questa è la verità, documentata dalla storia. Orsini aggiunge che suo padre sotto il fascismo è stato un uomo felice. Ma un caso singolo non può dimostrare la generalità dei casi. E di fatti il fascismo italiano aiutò Franco in Spagna, uccise popolazioni inermi in Etiopia e in Libia, in Eritrea, in Somalia. Anche bambini. Collaborò con i nazisti tedeschi in Grecia e altrove. Ecco dove il paralogismo di Orsini è sbagliato, promuovere casi singoli a fenomeno generale. Non diversamente risultano fallaci molti degli altri suoi paralogismi o paradossi.
Qualcuno mi ha obiettato e aggiunto quanto segue: “Vero che Orsini faccia spesso uso di una figura retorica che andrebbe usata con molta parsimonia altrimenti diventa nociva, e si chiama paradosso. Quello di ‘preferire i bambini vivi sotto una dittatura a quelli morti sotto i bombardamenti democratici’ non è un paralogismo ma un paradosso. Un paralogismo si applica ad un argumentum in cui sia in gioco il vero o il falso. Qui stava solo affermando una sua paradossale preferenza. Sulle altre argomentazioni, andrebbero presa una per una e verificate”.
Altri mi controbattono adducendo le affermazioni di illustri storici, filosofi che compaiono spesso in televisione – ma, guarda caso, mai di esperti commentatori politici. Entrando nel contenuto delle affermazioni che giudico errate: sproloqui sulla veridicità o meno dei fatti discussi, analisi degli avvenimenti citati, capello spaccato in quattro se sia più colpevole l’aggressore o l’aggredito, insomma tutta una discussione sui singoli fatti, non una sola osservazione sul modo di discuterli o di raccontarli. Qualcuno, addirittura, infastidito protesta: ma con la tragedia in corso, uno si sofferma a guardare la correttezza formale dei discorsi sulla tragedia. La tradizionale insofferenza italiana per i procedimenti formali, per l’astrazione. Il contenuto prevale. Il contenuto conta, il resto sono fantasie di intellettuali. E tirano fuori tutto il repertorio di chi ha fatto che cosa, quali nefandezze, mica solo i russi, anche le potenze “democratiche”. Ma che c’entra questo, dico, con un discorso sulla correttezza dell’argomentare? Io non scrivo dell’Ucraina. Situazione intricatissima, che non ha una sola risposta. Scrivo delle semplificazioni fuorvianti di Orsini e di altri. Su questo mi si deve confutare o correggere. Il resto riguarda un’altra discussione. È come se confutando le false illazioni dei terrapiattisti mi si tirasse fuori tutta la storia delle teorie dell’universo. Vedo una certa difficoltà da parte di molti, a non limitarsi all’argomento proposto, a introdurre elementi estranei che complicano e confondono l’analisi. Orsini potrebbe anche dire il vero. Ma come lo sostiene non dimostra che sia vero. Di fatti non può dimostrarlo, perché non è vero. Anche le dittature, infatti, ammazzano i bambini. Basterebbe l’esempio dell’Argentina. Ma non è il solo esempio. Quanto ai contenuti, di cui sopra, certo che anche gli USA hanno commesso nefandezze, ed è vero che ora abbiano interesse, esattamente come la Russia, a indebolire l’Europa. Ma questo non c’entra con il fatto immediato di un paese che aggredisce un altro paese. Altrimenti ritorniamo ai ragionamenti del tipo: “e allora il PD?”, che è un modo di discutere con cui non si va da nessuna parte. Introdurre un diversivo è non comprendere la sostanza dell’argomentazione. Gli esempi di popoli che compiono massacri sono infiniti, dalle origini della storia. Ma che un popolo abbia compiuto massacri non assolve il crimine di un altro popolo che fa lo stesso. Se gli USA hanno buttato bombe su Bagdad non rende per ciò stesso incolpevole la Russia dal fare altrettanto su Mariupol. E di questo, adesso stiamo parlando. Non della storia dei bombardamenti. M‘indigna, inoltre, il fatto che si “ragioni” su colpe e misfatti di USA e Nato (che ci sono stati e ci sono), quando attualmente i misfatti sono compiuti da un’altra parte, che si osi sorvolare sul fatto che si sta parlando di un popolo massacrato per pura e sola volontà di potenza. Che lo abbiano fatto anche gli USA e la Nato, in passati remoti e recenti, non diminuisce di un millimetro l’attuale responsabilità della Russia di Putin. Chi avanza, però, simili dubbi sulla correttezza argomentativa che si appelli o a un’ideologia o a discorsi d’impatto emotivo, invece che razionale, è qualificato di “cialtrone sproloquiante”, a dimostrazione che l’insulto sostituisce la confutazione. Ebbene, se il linguaggio è la spia del pensiero, questo linguaggio ne testimonia l’assenza. Non si ha, in effetti, un minimo di conoscenza di che cosa sia un’argomentazione. Non è assembrare fatti, ma controllare che il modo di assembrarli sia corretto. Il modo, non il contenuto. Ma questo, vedo, sfugge a quasi tutti. E così torniamo al punto dal quale siamo partiti. La struttura formale di un discorso non è affatto indifferente alla verità di ciò che si afferma. Ne è anzi il supporto fondamentale. Tutto ciò per un discorso che voglia dimostrare la verità di ciò che si afferma. Qui, però, potrebbe aprirsi un corollario.
Non tutti i discorsi mirano alla dimostrazione di una verità che si afferma. Ci sono discorsi che vogliono convincere chi ascolta ad abbracciare questa o quest’altra risoluzione, decisione, questo o quell’altro partito, movimento, gruppo di opinione. È in questo tipo di discorso che i paralogismi, i paradossi sono funzionali, perché capaci di ottenere consenso. Ma non mi si venga a dire che sono discorsi che vogliono affermare la verità. Nel 1973 due studiosi russi della comunicazione, Jurij M. Lotman e Boris A. Uspenskij, scrissero un saggio prezioso – Umberto Eco li elogiò e ne trasse profitto – “Tipologia della cultura” (trad. italiana, Bompiani 1975). Costoro divisero i modelli sociali di comunicazione in due tipi fondamentali, sintattico e analogico. Le società sintattiche sono quelle che sottopongo il discorso a verifica strutturale. Quelle analogiche le società che attestato la verità di un discorso in riferimento a un modello al quale il discorso si adegua. La società greco-romana era una società di tipo sintattico, che viene sostituita nel Medioevo da una società analogica. Non c’è nessun giudizio di qualità in questa distinzione. Tanto la società sintattica antica quanto quella analogica medievale hanno prodotto grandi opere, hanno dato vita a grandi civiltà. Nel Rinascimento si ritorna a un società di tipo sintattico, che dura fino alla metà del Novecento, dopo di che si sta ritornando a un società di tipo analogico. Oggi, se l’ipotesi dei due studiosi russi è vera, vi siamo addirittura affondati dentro fino al collo. Il disagio è dunque per chi sia rimasto attaccato al modello sintattico, alla verifica razionale dei dati. Io sono tra questi. Ma il gruppo μ – gruppo di linguisti eredi della scuola di Praga, che ruotavano intorno al centro linguistico dell’Università di Liegi, pubblicò nel 1970 a Parigi (P.U.F., Presse Universitaire de France) una riformulazione moderna della Retorica antica, Rhéthorique Générale, trad. it. Bompiani 1976, Retorica generale, le figure della comunicazione. L’arte retorica, impostata rigorosamente per la prima volta da Aristotele – dobbiamo a lui la distinzione tra discorso dimostrativo di una verità e il discorso inteso a convincere chi ascolta – e poi, tra i Romani da Cicerone e da Quintiliano, e su su fino alla scuola francese di Port-Royale, sec. XVII-XVIII, a Pascal, a Fontanelle, a Saussure e infine a Perelman e Olbrechts-Tyteca (Parigi, 1958, trad. it. Trattato dell’argomentazione, Einaudi, 1966. In questi libri sono spiegati gli strumenti della convinzione. Da Aristotele in poi sono rimasti quasi gli stessi. Tuttavia con una differenza tutt’altro che marginale, nei due millenni di evoluzione: da struttura della ricerca del vero a struttura di come convincere l’ascoltatore che la mia affermazione afferma la verità. Il discrimine è sottile, ma non indifferente. Perché anche in una società che si affidi a modelli di riferimento invece che a procedimenti analitici d’investigazione non è trascurabile il fatto che il modello, a sua volta, possegga gli strumenti analitici d’investigazione sui quali impostare le proprie proposte con cui catturare il consenso. E c’è un modo solo per scoprire se il discorso giochi pulito o giochi sporco. Conoscere i procedimenti dell’argomentazione, indipendentemente dal fatto se se ne voglia riconoscerne la veridicità o l’affidabilità. Anche nel Medioevo, epoca tutt’altro che buia, il modello che si proponeva come analogia della verità rivelava anche con che sistema arrivava a proporsi, quale fosse insomma la struttura di questa verità. La logica formale conosce proprio nel Medioevo, anzi, con la Scolastica, e in particolare con Duns Scoto, ma Occam non è da meno, una sottigliezza argomentativa di cui la logica moderna, con Russell e Wittgenstein, è profondamente debitrice. È questo aspetto che invece sembra mancare nell’argomentazione di oggi: la trasparenza dei procedimenti argomentativi, sostituita dall’appello all’autorità del parlante. Ribadisco: è l’autostrada per condurci diritti diritti a un regime politico autoritario. Il che non significa affatto necessariamente costrittivo, poliziesco, repressivo: la tecnologia ha sviluppato strumenti di convinzione che possono fare a meno della armi e del carcere. Anche in questo, Putipu la sua Russia, appartiene al secolo passato. E questa guerra ci ha ripiombati in pieno, orrido, repressivo, nazionalistico, guerrafondaio Novecento. Confesso che ho paura.