Apparve una mattina in fondo al giardino, davanti alla capanna degli attrezzi. Guardava davanti a sé con due occhi immensi, sgranati. Due buchi neri in mezzo a una foresta di peli e di vibrisse. Se lo chiamavo mi fissava attentamente, quasi con ostinazione, ma, attratto da quello sguardo così intenso, appena però cercavo di avvicinarmi, scappava via. Era un gatto bellissimo, tra i più belli mai visti o che mi girassero per casa – anni fa ce n’era uno, che dormiva con me, sul letto, tenerissimo, pacifico, che avevo chiamato Berengario, nome del primo Re d’Italia, giusto per dargli un nome regale, e che si perse per le strade di Roma, deluso dall’approccio inconcluso con una persiana cinerina simile a lui e non l’ho rivisto mai più – , il visitante che ispezionava il mio giardino era un gatto tigrato, pelo lungo, arruffato (ma sarebbe bastato spazzolarlo e il pelo sarebbe ritornato liscio, morbido, fluente), una palla, un batuffolo di lana, come un gatto persiano. Immaginai che fosse il gatto di qualche villa vicina, accanto alla mia e che, come fanno tutti i gatti, amasse ispezionare il circondario. Non accettava nessun cibo, e nemmeno si accostava alla ciotola dell’acqua. Inutilmente spargevo croccantini di ogni tipo, pezzi di carne o di pesce sul pavimento dell’atrio o sulla terra, vicino alle piante. Non si accostava nemmeno per annusarlo, quel pasto che altri gatti avrebbero voracemente inghiottito. Sei anche snob? gli chiesi dentro di me, guardandolo. Lui, come avesse percepito la mia inquisizione, mi guardava quasi indispettito, con aria di sfida, quasi a dire: e allora? Una volta si sedette sul cofano della mia Twingo, e sorprendentemente si lasciò avvicinare, ne approfittai subito, corsi nello studio a prendere la mia macchina fotografica e tornai in giardino: stava ancora là, seduto sul cofano della Twingo: lo fotografai. Sembrò incuriosirsi, che cavolo facevo? E mi squadrava dall’alto in basso, come se mi deridesse. Provai ad avvicinarmi di più. Restava fermo, immobile, e mi guardava. Ma quando poi tentai di carezzarlo scappò subito via. Questo suo apparire e scomparire durò per qualche mese, forse addirittura un anno. Sempre agile a scavalcare muri, a infilarsi nei passaggi più stretti delle siepi, e a presentarsi con aria deridente davanti alla porta della casa. Era ormai quasi una presenza abituale, un amico che veniva a farci visita. Già, perché in realtà io avevo già altri gatti, tre. gelosissimi del loro territorio. Ed era perciò strano comunque che non lo aggredissero. Aggredivano di solito qualunque intruso. Una volta, anzi, il misterioso visitatore lanoso si associò ai miei tre conviventi nell’affrontare un gatto rosso aggressivo e invadente, il quale vistosi attaccato da quattro gatti scomparve e non si fece più vedere. Lui, il pelosissimo, però, restava diffidente, non si lasciava avvicinare e anche i miei gatti lo tenevano a prudente distanza. Una mattina, inaspettatamente, accettò invece che mi avvicinassi fino a lasciarsi toccare la testa, gli carezzai la nuca. Chiuse gli occhi, godeva. Ma a un tratto, non so se messo in guardia da un mio gesto inopportuno o da qualche rumore che io non avevo avvertito, scappò via. E non si fece più vedere per giorni. Cercai sulla rete a quale razza potesse appartenere un gatto così bello, ma indefinibile, di una razza che non riuscivo a individuare. Sicuramente non era un persiano e se meticcio un assai strano meticcio, figlio di una genealogia quasi pura. I peli sulla punta delle orecchie, come sulle orecchie di una lince, me lo fecero infine riconoscere per un Maine Coon. Anche se probabilmente un incrocio di gatti diversi. La forma allungata del muso me lo faceva sospettare, troppo allungata per essere il muso di un Maine Coon. Acquistai una confezione di croccantini preparati apposta per la sua razza. Ci vi si avventò immediatamente sopra, appena li vide, doveva averne riconosciuto l’odore, e in pochi secondi li divorò. Restò nel giardino anche il pomeriggio. Si sdraiò al sole, sotto il cespuglio di mirto. La sera stava ancora là e gli diedi da mangiare insieme agli altri tre. Entrò in casa, inseguendo la ciotola, e appena ebbe finito di mangiare si accucciò per terra, sotto la tavola. Lo presi in braccio e cominciai a carezzarlo dalla testa alla coda, enorme, un bioccolo leggero. Lo distesi sulle mie cosce e continuai a carezzarlo. A un tratto, sentii che cominciava a fare le fusa, ininterrotte, insistenti. E adesso è qui, che non se ne va più via. L’ho chiamato Scekspir. Perché, con quella specie di barba intorno al muso, gli assomiglia. Non conosco la sua storia. Ma deve avere avuto un’infanzia felice, coccolato: è abituato alle carezze. Anzi emette, con voce flebile e acutissima, lievi, impercettibili miagolii. Ormai è anche lui di casa. Ma il cocco di casa, Cherubino, un gatto bianco e tigrato, a pelo corto, non è affatto contento della situazione. Quando lo vede, anzi, lo aggredisce o miagola sommesso, minaccioso. Scekspir adorerebbe sdraiarsi sul letto, ma Cherubino glielo proibisce. Si accontenta così di accucciarsi sul divano dello studio. Si dividono a turno lo scanner sulla mia scrivania, sul quale è steso un panno di feltro. Vorrei conoscerla la storia di Scekspir, affamato com’è di carezze, silenzioso, discreto, che guarda gli altri gatti di cui credo che invidi la mia familiarità con loro, il fatto che se mi stendo a letto, tutti e tre mi saltano addosso sul petto e sulla pancia. Cherubino sul petto, il muso quasi sul mio mento. Basilio, un gatto tutto nero, sulla pancia. E sull’inguine si accuccia Barbarina, la sorella di Cherubino. Restano tutti e tre accucciati su di me, e mi assordano con le loro fusa. Scekspir vorrebbe imitarli, ma si tiene a prudente distanza. Qualche volta si spinge fino ad annusare l’ano di Basilio, che lascia fare. Ma Cherubino lo ferma con un miagolio sommesso, minaccioso, non appena sospetta che abbia intenzione di avvicinarsi. Più diretta, Barbarina lancia zampate sul suo muso. Allora Scekspir si sistema sulla cassapanca ai piedi del letto. O, quando si sente in vena di sfidare Cherubino, si allunga sul letto ai miei piedi. Cherubino a volte protesta e allora lui salta giù e va via nello studio. Altre lo ignora, e Scekspir mi resta accucciato ai piedi del letto. Qualche volta osa addirittura stendersi al mio fianco. Ormai i quattro gatti convivono. Due hanno deciso d’ignorarlo. Cherubino, invece, continua ad avversarlo, ma si dimostra sempre meno aggressivo. Preferisce piuttosto venirmi a disturbare quando scrivo al computer, a interrompere il mio lavoro, struscia il muso sul mio petto, mi fissa negli occhi, mi passa su e giù la coda sotto il mento. O, dopo avere ficcato i suoi occhi sui miei, come avesse colto un segno di approvazione o di permesso, mi si mette sulle gambe oppure, più deciso, e quasi trionfante, si sistema tra la tastiera e lo schermo del computer, e accenna di dormire. Vorrei davvero conoscere la storia di Scekspir, come si sia smarrito, o perché abbia lasciato la sua casa, e abbia affrontato la vita di un randagio. È abituato alla compagnia dell’uomo: il suo comportamento è di un gatto di casa. Se lo chiamo mi guarda, emette un timido miagolio, chiude gli occhi e aspetta la carezza. E quando sente la mia mano su di sé dapprima apre gli occhi, poi li chiude e fa le fusa. Immagino che il suo padrone o la sua padrona siano morti e gli eredi lo abbiano portato lontano e abbandonato. Ma poi mi chiedo se sappiano che un Maine Coon è un gatto ricercato, costoso, con un mercato proficuo e in fondo scellerato, come qualunque mercato di esseri viventi. Chi ci dà il diritto di trattare i viventi come oggetti? Avrebbero comunque potuto venderlo e guadagnarci qualcosa – o regalarlo e fare felice qualcuno. L’abbandono, di un animale, come di un uomo, è l’azione più scellerata che un individuo possa compiere. Anzi, sono scellerate nello stesso modo. Mostrano una sgradevole mancanza di sensibilità alla sofferenza degli altri, o, meglio, un’indifferenza deplorevole a ciò che l’altro possa provare, se scacciato, abbandonato o semplicemente trascurato. Si comincia disprezzando l’animale e si finisce per infischiarsene del male che si fa a un altro uomo, o addirittura per augurarne o provocarne la morte, uomini e animali degradati a oggetto della propria smania di dominio. Ormai è solo qualche mese che Scekspir sta qui con me, ma c’è già tra noi, soprattutto in lui, una fiduciosa familiarità, come se volesse dimenticare la sua vita di randagio, e si affidasse alla mia protezione, al mio sostegno. Quando non può starmi addosso, si accuccia sui miei panni, e se non mi vede annusa ogni angolo della casa. Circoscrive il suo territorio nel giardino pisciando sugli arbusti, sul mirto, sull’alloro, sul rosmarino. Forse anche per imporre la propria presenza e, soprattutto, la propria permanenza agli altri tre gatti. Se mi alzo dal letto, scende dal divano dello studio e mi segue per le scale che conducono alla cucina. Alza il muso e aspetta. Quando gli dispongo la ciotola con i croccantini sotto il muso, prima che la ciotola tocchi il pavimento emette lunghi, frequenti e acuti miagolii. Ormai è un compagno stabile della famiglia. Avevo paura che se mi assentavo per qualche giorno, al rientro non lo avrei più ritrovato, perché immaginando un abbandono riprendesse la sua vita di randagio. Invece a ogni rientro, lui è qua che mi aspetta. Mi guarda. So che cosa mi chiede. Avvicino la mia mano al suo muso e comincio a carezzarlo. Lui chiude gli occhi e fa le fusa.
Fiano Romano, 12 gennaio 2024