“L’uomo invisibile”: la smaterializzazione della paura

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Cecilia Kass (Elisabeth Moss) è vittima delle violenze psicofisiche inflitte dal suo compagno, Adrian Griffin (Oliver Jackson-Cohen), un ricco e brillante ingegnere. Decisa a porre fine ai soprusi Cecilia, grazie all’aiuto di sua sorella Emily (Harriet Dyer), riesce a fuggire dall’uomo, trovando riparo a casa dell’amico di infanzia James (Aldis Hodge), un detective di polizia, e di sua figlia Sydney (Storm Reid). Due settimane dopo, Cecilia riceve la notizia della morte di Adrian avvenuta per suicidio. Alla donna spetta un’eredità di cinque milioni di dollari, come da volontà del defunto fidanzato contenuta nel testamento gestito dal fratello di lui, Tom. Dopo non molto, però, strani avvenimenti iniziano a manifestarsi nella vita della donna la quale, ben presto, si convince che Adrian, in realtà, ha trovato un modo per perseguitarla.

Nel bel mezzo di una “epoca” cinematografica in cui i remake e i reboot si sprecano, spesso, con scarsi risultati, vi è sempre un’eccezione capace di far gridare al miracolo. Ed effettivamente, L’uomo invisibile (The Invisible Man, 2020) diretto da Leigh Whannell lo dimostra. Omonimo rifacimento del classico del 1933, a sua volta basato sul romanzo di H.G. Wells, L’uomo invisibile fa parte del Dark Universe, di quell’ambizioso progetto della Universal mirato a riportare in auge le leggendarie icone dei mostri di tanto cinema horror a cavallo tra gli anni Trenta e Cinquanta. Dopo i flop di Dracula Untold (2014) e La mummia (2017), L’uomo invisibile è riuscito a ribaltare la situazione, attestandosi come un prodotto filmico ben al di sopra della media.

Riuscito connubio tra thriller e horror psicologico l’opera terza di Whannell, sceneggiatore dietro i franchise di Saw e Insidious, abbandona le atmosfere da sci-fi del film originale per rapportarsi, in tutta la sua totalità, al contesto della società odierna. L’uomo invisibile è, a tutti gli effetti, una amara e precisa mise en scène su quel triste, noto e criminale fenomeno socio-antropologico che va sotto il nome di stalking. Dopo un inizio in medias res, che vede la rocambolesca e nottetempo fuga di Cecilia (splendidamente interpretata da Elisabeth Moss) donna – apparentemente – instabile mentalmente che, in realtà, nasconde un’esistenza fatta di violenza e costrizioni, L’uomo invisibile inizia a dipanare, minuto dopo minuto, il suo intreccio narrativo, in un crescendo sì lento bensì epurato da qualsivoglia momento di noia.

Affidandosi a quella struttura che gioca su quel vedo non vedo (e mai, come in questo caso, non poteva non esserci escamotage più azzeccato), su quell’orrore più suggerito che mostrato che tanta letteratura (come quella di Lovecraft e Poe hanno saputo insegnare) e cinematografia di genere (basti pensare a titoli recenti come Babadook, It Follows, Lights Out e Hole – L’abisso) hanno adottato facendone, così, il proprio punto di forza, L’uomo invisibile tralascia l’abusato ricorso ai jump scare oramai banali e spesso prevedibili e fa a meno delle macellerie splatter di tanto horror privo di una vera trama di spessore. Certo, nel terzo lungometraggio di Leigh Whannel non mancano dei momenti grandguignoleschi di inaudita, spiazzante e inaspettata ferocia piazzati ad hoc ma ciò che più colpisce di questo remake/reboot è il costante senso di minaccia che aumenta, scena dopo scena, in un crescendo di tensione e suspense pronte a detonare in un climax durante il quale, degli immancabili colpi di scena ben assestati, non possono mancare.

L’uomo invisibile, forte di uno script ben scritto e di un impianto scenotecnico di prim’ordine, è la smaterializzazione della paura, di quel terrore che, in questo caso, non proviene da figure demoniache, entità aliene od orribili mostri ma – semplicemente – dalla follia di un uomo che, affidandosi ai ritrovati tecnologici dell’era del 3.0, riesce nel suo malsano intento di perseguitare la propria vittima. Il personaggio di Cecilia non si riduce a mero stereotipo della donna debole e ingenua ma diventa emblema, trasfigurazione di una donna stanca di subire e ben capace di reagire dopo aver affrontato, a viso aperto, la propria paura e ripagare il proprio aguzzino con la stessa carta qui, però, permeata di vendetta. L’uomo invisibile è un film che funziona, un’opera nella quale il senso di inquietudine e di angoscia fanno da padrone e che riesce a muoversi, agilmente, tra generi e sottogeneri in modo tale da essere un prodotto coevo e completo sia sul lato prettamente dell’entertainment sia sul lato squisitamente riflessivo.

- 14/04/2020

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