Trarre un film dalla Recherche di Proust è idea che venne a molti. Tra questi, a Flaiano, a Visconti, a Pinter. Ma forse è un bene che i progetti non si concretizzassero in un film, vale a dire in una narrazione copertamente o scopertamente (il che sarebbe stato peggio) realistica di vicende personali che s’intrecciano. Non è questo il soggetto del romanzo di Proust, per quanto affascinanti possano sembrare al lettore le vicende che vi si narrano. Il soggetto, infatti, è la narrazione stessa, la costruzione di un’architettura insieme linguistica e narrativa, che rispecchi l’esperienza che ciascuno si forma della realtà. Con un particolare segno che lo distingue da qualsiasi altro romanzo – esclusi pochi altri, per esempio l’Ulisse di Joyce e L’uomo senza qualità di Musil e, forse, I sonnambuli di Broch – di essere cioè un’architettura che costruendo la narrazione costruisce in realtà un mondo che della realtà, più che lo specchio, è l’interpretazione. In tal senso gli si possono accostare la Commedia di Dante, il Don Chisciotte di Cervantes e il Faust di Goethe o, sempre di Goethe, i tre romanzi dedicati alla figura di Wilhelm Meister. E, naturalmente, L’anello del Nibelungo di Wagner. Ma anche gli ultimi cinque quartetti di Beethoven, che Proust volle eseguiti a casa sua da un quartetto, da lui chiamato e profumatamente pagato, che li suonò per tutta una notte. Non a caso. I cinque quartetti, tutti e cinque, sono costruiti su una cellula motivica ricavata dal nome Bach: si bemolle la si do. In questa forma la cellula si presenta solo nel Quartetto op. 130, che è in si bemolle maggiore, ma l’intervallo si do è abbassato di una terza, la bemolle sol. Negli altri quartetti la cellula appare trasposta. Riconoscibilissima nel Quartetto op. 131, in do diesis minore, dove anzi apre il discorso con una misteriosissima elaborazione contrappuntistica, quasi una fuga. Che cosa affascinava Proust di questi quartetti? Ma naturalmente la petite phrase che li genera, come nell’immaginaria composizione di Vinteuil. E come su piccole frasi che si sviluppano in architetture gigantesche, è costruito l’edificio del romanzo. Non estranea l’esperienza della prosa di un Montaigne o di Madame de Sévigné.
Marco Filiberti, che esce dall’esperienza di avere costruito, anche lui – esattamente: costruito – un film dal Parsifal di Wagner – non sul Parsifal e tanto meno il Parsifal o tale solo in un senso traslato, ma una riassunzione dell’archetipo di Parsifal nell’oggi, così come lo era per Wagner la riassunzione del Perceval di Chrestien de Troyes e, soprattutto, del Parzival di Eschenbach come puro folle che salva l mondo sostituendosi alla morte degli dei – l’autore del Compleanno anche da Proust non chiede una narrazione, ma se mai. al posto di una spiegazione impossibile del reale, le figure – nel senso concreto che il termine figura aveva nella ermeneutica e nella retorica medievale, nell’assunzione figurale appunto di elementi della realtà – che nella vita di ciascuno sono il principio e il motore di tutta l’esistenza. Filiberti chiama questo suo esperimento, o saggio, Chahiers d’ecriture, quaderni di scrittura. E li mette in scena il 15 e 16 luglio al Teatro degli Avvaloranti di Città della Pieve, il 22 luglio al Teatro Castagnoli di Scansano, nella Toscana meridionale. nel quadro del Morellino Classica Festival. I primi due quaderni riguardano le figure della gelosia, il primo, e del teatro, il secondo.
Ad apertura di sipario le figure degli attori e delle attrici si stagliano sul palcoscenico nudo come sculture che disegnino nell’aria atteggiamenti diversi del vivere (guidati meravigliosamente dal coreografo Emanuele Burrafato). Le sculture a poco a poco si muovono. E si disegnano le presenze di Marcel, Daniel De Rossi, e di Albertine, Martina Massaro e Luca Tanganelli; di Swan, Giovanni De Giorgi, e di Odette, Zoe Zolferino; di Charlus, Pavel Zelinsky, e di Morel, Alessio Giusto (si tace sulla figura di Gilberte). Completa le figure il Coro: Diletta Masetti, Olimpia Marmoross, Irene Ciani, Alessandro Burzotta. Nel secondo quaderno, On dit qu’un prompt départ (emistichio di verso della Phèdre di Racine) le figure delle due attrici, la Berma, Diletta Masetti, e Rachel, Olimpia Marmoross, si dividono la raffigurazione di che cosa sia il teatro se l’attuazione figurale della propria vita o l’esibizione delle proprie ambizioni. Senza fingersi, tuttavia, che le due disposizioni possano mescolarsi e l’arte, alla fine, rivelare il fallimento di tutt’e due. la verità della confessione di Fedra non salva Ippolito dal sacrificio né la matrigna incestuosa dal suicidio, così come la brutalità della virtù prezzolata di Rachel non la difenda dall’insulto pubblico, come non difende né Morel né Charlus.
Charlus Morel
Straordinaria l’omogeneità della recitazione di tutti né enfatica né realistica, ma, appunto, figurale. Le parole si stagliano nello spazio come appelli inascoltati alla sopravvivenza, se non altro della memoria, nella consapevolezza che tutti invece siamo destinati all’estinzione. Il tempo è sempre irrimediabilmente perduto. E ciò che si ritrova non è, appunto, che la consapevolezza della sua perdita. Una figura che si staglia inconfondibile, permanente, nel ricordo, di ciò che vivendo si è perduto o, peggio, non si è mai veramente vissuto. Una voce chiama, alla fine, i personaggi, a uno a uno, e ad ogni nome si ha nel cuore il tonfo di una perdita, di una mancanza, ma se ne percepisce appunto la perdita e la mancanza perché la figura permane, a ricordarci, o, chi sa, a rimproverarci di averla, forse, volutamente o sconsideratamente, perduta.
Berma
Una parola va spesa per le musiche. Si ascoltano, nel primo quaderno: Satie, Ravel, Franck, Saint- Saëns, Boyer, Addinsell; nel secondo quaderno: Marin Maris, Anton Bruckner – l’interminabile, lancinante piccola fase dell’Adagio dellOttava Sinfonia – Stravinskij, Schoenberg, Massenet, Rimskij Korsalov. Debussy. Impressionante quanto proustiana suoni La Valse di Ravel! Ma il fatto è che le musiche non appaiono come l’esornazione sonora di una scena che ha paura del silenzio, bensì, anch’esse come un’architettura drammaturgica che costruisce il senso della rappresentazione. Esattamente come il muoversi dei corpi sulla scena, le statue che prendono a muoversi, all’inizio. Un teatro che voglia dare senso a ogni attimo e a ogni particolare della rappresentazione è costretto a immaginarsi il senso di ogni suono, di ogni gesto, di ogni parola, di ogni figura, a rifiutare la linea di una narrazione che spieghi il dopo come conseguenza del prima, perché nemmeno nella vita le azioni sono conseguenza di ciò che si è fatto o non si è fatto prima di agire. La logica, anzi, della causa è dell’effetto, è una logica temporale che spiega il dopo con il prima. Ma nel ciclo di un tempo che torna su sé stesso quale è il prima e quale è il dopo?
Aspettiamo, ansiosi, sia pure pronti a subirne la trafittura, i successivi quaderni.