Vieni Stefano, siediti lì, di fronte a me. Voglio insegnarti a capire gli scacchi.
Lo so che non so giocare. Non è questo che voglio insegnarti, ma a comprenderli.
Osservali. Due eserciti contrapposti, allineati su due file. Torri contro torri, cavalli contro cavalli, alfieri contro alfieri, regina contro regina, re contro re. Davanti, due file di otto pedoni. In tutto sedici pezzi bianchi e sedici neri schierati in battaglia su una scacchiera formata da sessantaquattro caselle, bianche e nere. Con al centro un mistero e una bugia.
Gli scacchi nascondono un enigma impressionante e una menzogna di fondo. Per comprendere l’uno e l’altra, bisogna partire dal fatto che gli scacchi sono un gioco di guerra, basato sulla filosofia militare.
Un gioco strano, logico solo in apparenza ma che, come la guerra, è fondato su tutto, meno che su ciò che sostiene la sua propaganda.
I pedoni sono la fanteria. In apparenza deboli, lenti, quasi inutili, vanno a piedi, si muovono solo in avanti. Devono proteggere l’elite militare che viene dietro, ma a volte ne intralciano i movimenti. La fanteria quando parte è fresca, giovane, può saltare anche alla seconda casella, ma si stanca presto, l’entusiasmo si spegne man mano che arriva alla portata dell’artiglieria, e rallenta. Ora si muove solo una casella alla volta. Carne da cannone, i pedoni. Il giocatore avventato, senza un vero piano, si finge spietato e li sacrifica spesso inutilmente, cercando di mettere in trappola l’avversario e far cadere i suoi pezzi pregiati. Il bravo stratega non ne ha certo più compassione, ma sa che un pedone, a volte, può farti vincere una partita. Non lo spreca. Non insiste a farlo diventare un eroe, spingendolo avanti da solo.
Il pedone uccide solo in diagonale, in avanti, il pezzo immediatamente alla sua destra o alla sua sinistra. Non sa sparare dritto. Forse perché è dura vedere il nemico in faccia, scoprirlo pedone come lui, lento come lui, uomo come lui, sottopagato come lui, e ucciderlo dopo averlo guardato negli occhi a lungo, solo perché è di un altro colore. Quello a lato gli è meno familiare, più estraneo. Muore in silenzio, il pedone, con un piccolo tonfo, spesso con più dignità del suo re, la voce coperta dal crepitio della guerra. Se invece per miracolo sopravvive e riesce a giungere in fondo alle linee nemiche, è promosso e può diventare uno qualsiasi dei pezzi abbattuti dall’avversario, persino la regina!
Le torri sono le macchine da guerra, quelle che si appoggiavano alle mura delle città per cingerle d’assedio. Sono i cannoni, tirati a mano o trainati da muli o da buoi, poco maneggevoli. Possono anche coprire grandi distanze, ma soltanto diritto o a lato, a destra e a sinistra, avanti e indietro, e solo se la strada è libera. Per far scivolare le macchine da guerra si dovevano spianare le strade, farle rigare diritto o costruirle in loco. Non ci potevi attraversare i campi, non c’era verso di guidarle in salita o in altre direzioni, ostruite magari da rocce e boscaglie o da sistemi difensivi. Le torri uccidono quello che sta loro davanti o a lato, anche a grande distanza. Hanno meccanismi rotanti eppure vanno a sangue e sudore. Cadono con grande fragore e fumo.
Poi c’è la cavalleria. I cavalli si muovono meglio, sono molto più veloci della fanteria, e procedono a “elle”. In alcune nazioni può essere anche una elle corta. Una squadra massonica. Saltano gli ostacoli, si nascondono dietro nemici e alleati per spuntare all’improvviso, balzandoti addosso quando meno te l’aspetti. Uccidono quelli che si fanno sorprendere al termine della loro corsa, balzando dai loro nascondigli. È difficile abbatterli, sono spavaldi, indomiti, spesso più coraggiosi e intelligenti di chi li guida, magari ansioso a volte di liberarsene per poter operare di forza con gli altri reparti che procedono con meno bizzarria. È una pessima mossa. I migliori strateghi vincono quasi sempre di cavalleria.
Gli alfieri sono la guardia scelta del re, procedono solo in diagonale e coprono anche grandi distanze, se occorre per salvargli la vita o uccidere i suoi nemici diretti, come ad esempio la regina o i loro diretti antagonisti alfieri. Difficilissimi da sacrificare, sono belli, alti, gli elmi lucenti al sole, semidei prestati alla guerra. Costano tanto, gli alfieri. Sono i corazzieri, l’elite degli eserciti di ogni tempo. Uccidono con micidiale precisione, sono rapidi, veloci, determinati. Tracciano delle enormi X sul terreno, delle croci tombali sui loro avversari. Muoiono con grande eleganza, un soffio di vento porta via la loro l’anima.
E poi c’è la regina, la divinità che fa ciò che vuole, va dove vuole, in qualsiasi direzione, coprendo qualsiasi distanza voglia, tranne che a elle, come i cavalli. Tutto è in dubbio, finché sul terreno c’è lei. Tutto può succedere, in qualsiasi momento. Nessuna strategia è al sicuro dai suoi influssi. Che vergogna, lasciarsi uccidere la regina in poche mosse da un alfiere. La sua fine è dolorosa. In quel momento sai che hai quasi perso la partita. A meno che tu non abbia un piano segreto, della cui riuscita sei così sicuro da essere disposto a sacrificare il tuo pezzo migliore. La regina è micidiale, temutissima dal re, il quale cade spesso per sua mano.
Infatti, Stefano, è il re il reale obiettivo della guerra. La sua eliminazione è lo scopo di tutto ciò che succede sul campo di battaglia. Si muove lentamente, il pezzo da novanta, appesantito dalla sua corte, dalle responsabilità, ma più che altro dalla vita comoda, dai piaceri, dalle donne. Si muove solo una casella per volta, in qualsiasi direzione. Per essere un re, è quasi un inetto come il pedone, potrebbe uccidere chiunque gli capiti a tiro, purché nel raggio d’azione di una sola casella, e solo se questo non mette in pericolo la sua vita. In fondo è un re. La conquista del potere e il raggiungimento della supremazia sul terreno avvengono solo con la sua fine, quando non può più fuggire. Alla sua resa segue il silenzio. Nessuna offesa per lui è più intollerabile che finire per mano di un pedone, cosa che non avviene quasi mai, in verità. Al massimo il pedone lo tiene in ostaggio, contribuisce a metterlo sotto scacco. Spetta a reparti più qualificati l’onore di ucciderlo o dargli scacco matto. E’ solo allora che la partita finisce.
Ma, dicevo, gli scacchi contengono un mistero e una bugia. Proprio non indovini quali sono? Non è così difficile. Non c’entrano i templari, né il santo Graal, né i mitici architetti delle piramidi. Guarda la scacchiera. Ora pensa alla guerra. Ci sei arrivato? No? Ebbene, la domanda è: abbiamo visto fanti, torri, alfieri, cavalieri, persino dei re, combattere, ma hai mai visto una regina combattere in guerra, tranne che nell’antichità?
In effetti, la regina Elisabetta e con lei tante altre potenti regine, hanno ordinato molte guerre, le hanno vinte o perdute, ma nessuna di esse è mai scesa in battaglia, tantomeno con quella potenza di fuoco nelle proprie mani. Non si è mai vista una regina armata come Rambo, muoversi sul campo di battaglia con la potenza di un Napoleone, la ferocia di un Alessandro Magno e la sete di vendetta di un Massimo Decimo Meridio. Giovanna d’Arco non era una regina. E allora? Cosa rappresenta il mistero della regina?
Va bene, ti aiuto. La regina non rappresenta la diplomazia, che pure può muoversi in qualunque direzione, ordire strategie e alleanze, e cercare di porre rimedio alle situazioni più gravi, perché quando si muove il primo pedone, la guerra è ormai cominciata e non può fare più nulla. Noi abbiamo già mosso, siamo in guerra. Non rappresenta neppure la politica, fatta per pianificare le future guerre. La regina rappresenta la Fortuna. La Sorte.
L’avversario più temuto, imprevedibile, micidiale e spietato di tutti è proprio la Fortuna. Contro di lei, nessuno può niente, neppure i re. La fortuna colpisce chi vuole, in qualsiasi direzione, avanti e dietro, a destra e a sinistra, in diagonale, vicino o lontano. L’unico movimento che le è impedito è a elle, come i cavalli: non riesce a colpire solo chi si nasconde a essa, e soltanto finché rimane ben nascosto, e becca sempre il primo che si trova davanti. In compenso ha più tempo degli altri, non un tempo eterno ma può anche aspettare, per un po’. Poi però passa, e quando perdi la fortuna sai che è finita, a meno che non tu non abbia un piano segreto, talmente potente e astuto da battere anche la fortuna altrui, o da permetterti di perdere la tua. La fortuna è tutto, o quasi tutto. Napoleone, quando sceglieva i suoi alti ufficiali, non chiedeva se fossero bravi, chiedeva: “È fortunato?”
A Waterloo perse per sfortuna. Aveva talmente piovuto che non riuscì a sistemare la sua micidiale artiglieria sul terreno che lui aveva scelto e nella carica la sua invincibile cavalleria affondò nel fango. Se quella notte non avesse piovuto a dirotto, oggi il mondo avrebbe un’altra faccia.
Gli scacchi nascondono anche una bugia. Sono democratici, nel senso che in linea teorica anche l’ultimo pedone può uccidere il più potente dei re e delle regine, se li trova davanti a sé, in diagonale, a destra o a sinistra, ma sono anche bugiardi nella loro essenza più profonda. Come gioco di guerra gli scacchi sono bugiardi nell’affermare l’assoluta parità tra gli avversari, nell’attribuire a ciascuno un pari numero di pezzi, stesse condizioni di gioco sul terreno, stesse regole, stessa forza militare, lasciando alla sorte la prima mossa e all’intelligenza, all’abilità, alla pazienza e alle doti strategiche degli avversari, l’onore della vittoria.
No Stefano, la guerra non si combatte mai ad armi pari. La guerra nasce sempre quando qualcuno crede di essere più forte del nemico e di poterlo annientare e conquistare. E tu, o sei questo nemico o sei quello che non ha altra scelta che difendersi o arrendersi.