Per quanto siano oggi numerose le interviste concesse dai poeti, è difficile trovare in esse un’analisi circostanziata delle loro opere, fondata su una esposizione ragionata delle scelte di stile e di linguaggio, e che dia conto anche delle tematiche. Altrettanto difficile è che i poeti si pronuncino su quello che ritengono essere lo stato attuale della poesia e il suo prevedibile destino. Una felice eccezione ci è offerta dai Nuovi dialoghi sulla poesia (2015-2022), Amos Edizioni, 2022, una recente raccolta di interviste rilasciate negli ultimi anni da Giancarlo Pontiggia: già il titolo richiama il genere del dialogo praticato dalla filosofia greco-latina e quindi ci avverte che sia gli intervistatori che l’autore intendono misurarsi anche con le problematiche che investono il senso e le finalità della poesia di oggi. “Dall’età romantica in poi, la parola si piega lentamente, quasi inevitabilmente, al potere suasorio di ciò che sfugge a ogni forma di decifrabilità: impressionante, magmatico slancio conoscitivo destinato al naufragio, e che in questo suo esito rovinoso trova la propria gloria.” (p.80). Gli esiti ripetitivi delle scritture neosperimentali, a suo tempo animate dal fervore della ricerca, e la poesia “fredda e minimalista di questi anni”, sembrano aver smarrito la tensione e l’ardore che spingono la parola a protendersi verso “qualcosa di più alto di quel che la parola stessa possa esprimere” (p.206), forse seguendo quelle “leggi misteriose” delle quali parla Proust. Si tratta dunque di recuperare alla parola poetica il senso, la decifrabilità e l’ansia di interpretare la realtà e comunicare con il mondo, senza smarrire la forza del non detto e del non dicibile, l’ombra che avvolge, in perenne contrasto e complementarità con la luce, l’esperienza del vivere e del conoscere. “Se il poeta percorre la notte, deve farlo come l’Angelo delle tenebre, portandovi la luce”, diceva ancora Proust. Unità di sguardo e di pensiero, di passione e razionalità, di tradizione e modernità: la poetica di Pontiggia si fonda si un’armonica coesistenza e tensione degli opposti. Lo sguardo sul presente suscita interrogativi inquietanti: “Il vero nodo dell’Europa è cosa ne sarà della grande cultura e del grande pensiero di civiltà che è andato stratificandosi dall’epoca greco-latina in poi. […] La grande novità degli ultimi venti-trent’anni nel mondo occidentale si può in fondo ridurre all’insofferenza sempre più generalizzata nei confronti dell’alta cultura” (pp.148-149). Interrogativi che riguardano la sopravvivenza stessa della poesia: già Montale nel 1975 si chiedeva: “potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa?” Forse sì, rispondeva, se si genera un qualche contraccolpo. E in un’intervista del 1986 Jean Starobinsky afferma che il pericolo sta nel fatto che oggi gli uomini di coscienza e di riflessione non sempre sono quelli che detengono la maggior parte delle informazioni sulle temibili possibilità della tecnica. Su questa linea di preoccupazione ma anche di auspicio si muove da sempre Pontiggia: scorrendo le interviste si vede come egli consideri l’opera poetica simile a una roccia che contiene in sé le tracce della sua millenaria stratificazione, e quindi delle “origini” (“dell’io, della vita, della parola, della storia stessa”). È questo un nucleo problematico centrale su cui egli ritorna a più riprese, fino a intitolarne un volume che ripubblica le prime raccolte (Origini, Interlinea 2015) e a farne il tema di un recente libro, Origine (Vallecchi 2022). L’attrazione per l’arcaico porta l’autore a esplorare (anche con l’aiuto dei pavesiani Dialoghi con Leucò) il magma primigenio, il caos cosmico, che in certa misura sopravvivono nelle “cantine” della nostra psiche e di lì inviano segnali ai quali solo la poesia riesce a dare forma: esemplare è la raccolta Il moto delle cose (Mondadori, 2017) in cui il poeta si spinge fuori dalle fiammanti moenia del mondo per cogliere, con ardore e disperazione, e con l’estatica esultanza di Lucrezio, barlumi e luminescenze del cosmo. Ma ogni esplorazione affonda le sue e nostre radici nelle elaborate costruzioni intellettuali e civili del mondo classico, e nelle opere dei filosofi e degli scrittori che ci hanno preceduto. Ed ecco i grandi maestri che Pontiggia pone a fondamento della sua poesia: dal poema cosmogonico di Empedocle e Lucrezio, alla storiografia sallustiana, alla poesia di Leopardi, Baudelaire e Rimbaud, ai grandi maestri tedeschi e russi del ‘900, fino agli italiani più amati, Montale, Luzi, Bertolucci, Caproni, oltre ai tanti studiati nel corpo a corpo del lavoro di saggista e traduttore (dalle lingue classiche e dal francese). Ed ecco allora la capacità di scorgere e tradurre nel brulicare e pulsare della parola il legame fra quotidianità e aspirazione al sublime, fiammate passionali e costruzioni astratte, visione e immanenza, tragedia e speranza. Ci affascina in questo poeta il convivere di una lietezza, memore di adolescenziali pomeriggi in assolate campagne estive, o dell’incanto di fronte allo splendore del mare greco, con lo sguardo che sa immergersi nelle oscure caverne del tempo, nell’origine della vita e nello smisurato lievitare del cosmo. Considerata nel suo insieme, in quello che le interviste dicono e sottintendono, l’opera di Pontiggia ci appare investita da una speciale forma di felicità: quella che nasce dalle accensioni in cui la parola si libera dalle sue scorie e raggiunge nel punto di fusione la sua verità.