E’ stato pubblicato, qualche mese fa, un piccolo volume, “Le persone e le cose” di Roberto Esposito.
Si tratta di un’opera di saggistica che merita una segnalazione e un invito alla lettura perché le tematiche che essa affronta, pur non essendo nuove nel mondo del pensiero filosofico, giuridico, economico e sociale, sono ciononostante di grande attualità e possono senz’altro essere oggetto di spunti di riflessione e approfondimento.
Il saggio è articolato in tre sezioni, “Persone”, “Cose” e “Corpi”: nelle prime due si esaminano due aree concettuali, per così dire, antinomiche e nella terza si esamina quella che l’autore propone come area concettuale per superare detta antinomia.
Esposito parte dalla netta divisione fra persone e cose su cui, da tempo immemorabile, si basa la nostra civiltà: “Le persone sono definite soprattutto dal fatto di non essere cose e le cose dal fatto di non essere persone”.
Le due aree concettuali di “persone” e “cose” che mutualmente si escludono, si possono infatti comprendere solo l’una in opposizione all’altra, essendo l’una il negativo dell’altra.
A riprova di quanto appena detto, l’autore richiama la ripartizione di diritto romano, riportata nelle Istituzioni di Gaio, fra “azioni”, “persone” e “cose”, a fondamento dell’ordinamento giuridico: “cosa è la non–persona e persona la non-cosa”.
Specifica poi Esposito che tra persone e cose “passa una relazione di dominio strumentale”: “in generale le cose sono considerate ‘taciti schiavi’”(espressione ripresa da J.L. Borges) “al servizio delle persone”. In particolare le cose che possono essere possedute vengono definite “beni”, terminologia che è arrivata fino ai giorni nostri: essa “è una testimonianza della prevalenza assoluta dell’avere sull’essere che caratterizza da tempo la nostra cultura”, osserva l’autore, e aggiunge: “le cose, pur essendo state date all’uomo in comune, finiscono sempre nella disponibilità di un proprietario che può disporne, usarle e anche distruggerle a suo piacimento”. Tale affermazione è particolarmente significativa perché viene individuato il fondamento del diritto di proprietà e anche della guerra quale “modo più tipico di acquistare proprietà”. E, se dopo una guerra è il possesso delle cose o la loro perdita a segnare il vero discrimine fra vincitori e vinti, in tempo di pace i rapporti sociali si fondano sulla distinzione tra chi possiede un patrimonio e chi no, tra i patres sui iuris, e gli altri, gli alieni iuris, non appartenenti a se stessi, che si trovavano in una “dimensione assai prossima a quella della cosa”: essi erano non solo gli schiavi ma anche mogli, figli, debitori insolventi.
L’autore poi si sofferma sul credo del cristianesimo secondo cui “ogni uomo è in linea di principio persona, a immagine e somiglianza del suo creatore”, uomo però diviso in due nature, l’una spirituale e l’altra corporea, quest’ultima sottomessa alla prima. Secoli dopo, osserva Esposito, Locke ha collegato il concetto di identità della persona al funzionamento della memoria: “essa è la capacità, da parte dell’io, di auto identificarsi, assumendo la responsabilità dei propri atti. Da qui il rilievo attribuito al nome proprio come ciò che aggrega, lungo uno stesso filo, i singoli momenti di cui è fatta una vita. Chi può garantire che il vecchio di oggi sia il giovane di un tempo o che l’attuale folle sia lo stesso che una volta era sano?”.
Dopo alcune riflessioni in tema da parte di Kant ed Hegel, l’autore esamina il pensiero neoliberale, in materia di bioetica, di autori come Hugo Engelhardt e Peter Singer. Egli riporta una citazione del primo, secondo il quale “Le persone in senso stretto vengono in essere solo qualche tempo – probabilmente qualche anno – dopo la nascita e probabilmente cessano di esistere qualche tempo prima della morte dell’organismo”; vi sono poi, sempre secondo gli autori sopra citati, le persone in potenza come gli infanti, le semipersone come gli anziani dipendenti, le non-persone come i malati in stato terminale e, infine, le antipersone come i folli. “Da qui alla tesi della padronanza sulle non-ancora , o non-più, persone da parte delle ‘vere’ persone il passaggio è consequenziale. Non potendosi sostenere, e non avendo neanche piena coscienza del proprio stato, le prime hanno bisogno che qualcuno decida per loro – non soltanto circa le condizioni della loro sussistenza, ma anche sulla opportunità di tenerle in vita o di spingerle verso la morte. Si fa già così per i feti. Cosa impedisce di applicare lo stesso trattamento ai figli nati ‘difettosi’?” per esempio. A tale logica, già presente ai tempi delle civiltà greca e romana, si uniscono poi considerazioni di tipo economico secondo il modello utilitarista.
In tema di cose, Esposito esamina la tendenza ad “annientarle”, ridurle a niente, sia in campo filosofico che giuridico. Infatti sia la filosofia che il diritto hanno ad oggetto “essenze ideali” e “modelli astratti”. Analogo rapporto tra ente e niente, secondo Esposito, si sperimenterebbe, prima ancora, col linguaggio, con la precisazione che “l’unico tipo di linguaggio che ‘salva’ le cose è quello letterario. E ciò non perché le conservi nel loro essere, ma perché dà per scontato che, assegnando loro il senso, le distrugge. L’ideale della letteratura… è non dire nulla. O dire il nulla, sapendo che la parola scritta deve il suo senso a ciò che non esiste”.
Prosegue poi l’autore affermando che “nel mondo moderno le cose sono annichilite dal loro stesso valore”, prendendo così in esame il pensiero di Marx, in tema di concetti come denaro – “puro valore di scambio… la cosa più preziosa da possedere” -, merce, forza-lavoro, alienazione.
Esposito si sofferma quindi sul pensiero di altri autori, come Heiddeger, che hanno evidenziato come il processo di “personalizzazione delle cose” sia l’esito di una “cosificazione delle persone”.
Nell’ultimo capitolo l’autore passa a parlare di “corpi”. Già nel diritto romano, il corpo vivente non godeva di un particolare status giuridico, essendo esso assimilato alla persona che lo incarnava. Esso non poteva essere oggetto di negozio o di sfruttamento nemmeno da parte della persona “che lo abitava”. Conteso tra diversi poteri, Stato, Chiesa, individuo, il corpo dell’uomo è stato cancellato come oggetto di diritto: inserito nella Magna Cartha con l’habeas corpus, esso poi scompare nelle codificazioni moderne. Esposito cita Kant, il quale, in sintonia col pensiero del mondo romano, afferma che “l’uomo non può disporre di se stesso, poiché non è una cosa: egli non è una proprietà di se stesso, poiché ciò sarebbe contradditorio”. Si arriva poi ai giorni nostri con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che vieta “di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro”.
Ma, osserva Esposito, sostenere che qualcosa non sia oggetto di mercato, che sia extra commercium, non equivale a escluderla dall’ambito delle cose. Che dire infatti del corpo non in astratto ma situato nel tempo e nello spazio? Il cadavere, corpo di non vivente, o l’embrione, corpo prima della nascita, come dovrebbero essere considerati? “Il trafugamento di cadavere, oppure di embrioni, va considerato alla stregua di un rapimento come se si trattasse di una persona o di un furto come fosse una cosa?”. E le singole parti del corpo, gli organi, o i suoi prodotti come il sangue?
La vecchia distinzione tra persone e cose risulta inadeguata a dar conto di tali interrogativi, tanto più a fornire risposte. Per Esposito, il corpo umano è assimilabile alle res sacrae: non coincide con la maschera della persona, irriducibile all’appropriabilità della cosa, non appartenente né allo Stato, né alla Chiesa, né esclusivamente alla persona che lo abita, esso “deve la propria intangibilità al fatto di essere eminentemente comune. Non soltanto nel senso, ovvio, che tutti hanno un corpo. Ma anche in quello, più intenso, che ogni corpo umano è patrimonio dell’umanità nel suo complesso”.
L’autore dedica gli ultimi capitoletti del testo alla riflessione in materia di “corpo”, riportando, tra gli altri, il pensiero di Cartesio, Spinoza, Hobbes, Vico, Nietzsche. Esamina poi forme di relazione diverse da quella tra uomini e cose così come si configura nella nostra società, come quelle relative al dono e al potlac (scritto così nel testo in esame) fino ad occuparsi della riflessione politica in tema di corpi sociali, “corpi di donne e di uomini” che “ancora sprovvisti di forme organizzative adeguate” “premono ai bordi dei nostri sistemi politici, chiedendo di trasformarli in una forma irriducibile alle dicotomie che hanno a lungo prodotto l’ordine politico moderno”.
Esposito conclude sottolineando l’esito incerto di queste dinamiche e soprattutto la loro “novità radicale” nella nostra storia, lasciando aperta la questione del loro seguito negli anni a venire.
Come si può comprendere da quanto riportato finora, il saggio è ricco di rimandi e citazioni di cui non si può dar pienamente conto in una breve recensione. E benché il criterio risolutivo della dicotomia persona-cosa non appaia conclusivo e pienamente convincente, si spera però di aver suscitato con queste poche righe la curiosità che l’opera e il suo contenuto meritano pienamente.
Il testo è ben scritto e scorrevole benché, a tratti, di non immediata fruizione. Un piccolo sforzo di attenzione però gratifica: è positivo aprirsi a nuove prospettive senza la pretesa di avere l’ultima parola e di fornire facili soluzioni pronte per l’uso.
Sardara, 6 novembre 2014