voci della radio Gioia De Marchis Giannini e Enzo Avolio
foto Pino Le Pera
Luci Zothause
regia Agostino Marfella
Dal 7 al 10 aprile e dal 13 al 16 aprile
Dal 7 al 16 aprile il Teatro Lo Spazio dedica un ricordo ad Annibale Ruccello, nel 36° anniversario della sua scomparsa, con lo spettacolo, Le cinque rose di Jennifer, per la regia di Agostino Marfella, con Leandro Amato e Fabio Pasquini. Punta di diamante della drammaturgia moderna italiana, Ruccello, risulta inoltre tra i più interessanti autori della scuola napoletana. Lo spettacolo, in una particolare scrittura scenica, vuole essere un tributo al Teatro del grande autore partenopeo.
La piéce, ambientata in un quartiere degradato della periferia di Napoli, racconta, con ritmo incalzante e grande “suspence”, il mondo dei travestiti. L’autore, narrando le storie di vita di Jennifer e Anna, esprime il dramma amaro della solitudine. Aleggia nella vicenda un’atmosfera da thrilling psicologico, che tiene gli spettatori con il fiato sospeso, fino all’ultima battuta… Si muovono, attraverso essa, i due protagonisti, povere anime perdute, confinate in un ghetto metaforico, tesi alla ricerca disperata di una propria dimensione; pronti a riappropriarsi del pudore e della dignità violati e derubati dai finti valori “borghesi”; e disposti a tutto, pur di elemosinare un po’ di affetto, fosse anche solo qualche parola attraverso il filo di un telefono. L’opera contiene una squarciante sensazione poetica di squallore e di frustrazione, nel cui contenuto il tragico si fa grottesco. Il palcoscenico grida i pensieri di Jennifer, ossessivi e maniacali, mentre la sua maschera recita il suo ultimo delirio d’amore per Franco, il maschio che probabilmente non esiste.
“Ritengo che Le cinque rose di Jennifer, testo cult di Annibale Ruccello (1980), con il tempo e le diverse edizioni, abbia acquisito uno spessore stilistico che gli ha conferito il valore di un piccolo classico del teatro contemporaneo”_ annota il regista Agostino Marfella.
“Nel mettere in scena lo spettacolo ho sottolineato la ritualità del testo con atmosfere antinaturalistiche, ispirandomi, oltre a Genet, alla tradizione nordica dei Kammerspiel, (principalmente a Strindberg e ad Ibsen nella scena finale ).
La storia assume quindi i contorni di un lucido delirio, in cui la solitudine può trasformarsi, degradandosi, nello svilimento dei miti e dei modelli. Deflagrazione dei linguaggi della comunicazione, che sfocia in una lacerante ed intensa recita, nel vano tentativo di ritrovare una propria identità.
L’effetto che ne risulta è quello di un grande cerimoniale scandito dall’attesa ossessiva dell’amore.”
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