L’arte, in ogni epoca, in ogni popolo, in ogni cultura, si è sempre rivolta a un pubblico che ne condividesse i presupposti ideologici e culturali, ma soprattutto i codici d’interpretazione. L’arte universale, che tutti capiscono all’istante, al primo impatto, è una bufala inventata da alcuni scrittori romantici (non da tutti) e diventata epidemica nella società di massa. Ma perfino i romantici, quando parlavano di arte popolare, intendevano per popolo solo quello della cultura in cui una certa arte sorge, i greci per i poemi omerici, i popoli di lingua germanica per i canti nibelungici. Nasce questa idea subito fomentando un grande equivoco dalle conseguenze catastrofiche: l’assimilazione dell’identità linguistica con l’identità nazionale, e da qui i dilaganti nazionalismi, che hanno scatenato due guerre mondiali e che oggi si sono trasformati, lillipuzianamente, in sovranismi. Ma proprio questo radicamento nella cultura del tempo e in quella di una ristretta fascia del popolo che la produce, richiede oggi a chi vuole godere dell’arte del passato la fatica di fornirsi degli strumenti culturali per intenderne i codici. La lingua in cui è scritta la Divina Commedia si parlava solo a Firenze e non era intesa che dai fiorentini. L’operazione di Dante fu di allargarne il campo semantico e di renderla comprensibile anche a chi non parlava fiorentino. Ma ci vollero decenni. Già poco dopo la sua pubblicazione fiorirono i commenti al poema, per renderne più corretta la comprensione. Anche ai fiorentini stessi, visto il profluvio di parole non fiorentine (latinismi, grecismi, veneziano, lucchese, bolognese, e altre parlate locali) che sono disseminate nel poema. Per non parlare dei termini tecnici, scientifici, filosofici, poetici, artistici (la divagazione sulle miniature, nel Purgatorio, per esempio) che lo percorrono da cima a fondo (“l’amor che move il sole e l’altre stelle”, verso che chiude il poema, non si capisce se non si fa riferimento alla teoria del Primo Motore Immobile della cosmologia aristotelica tolemaica tomistica).
E’ sgradevole, certo, per molti, riconoscerlo. Ma l’arte del passato non si rivolgeva a tutti, bensì solo alla ristretta, anzi ristrettissima élite – si élite! – che ne condivideva cultura e codici. Anche il teatro, che sembra fenomeno più “popolare”, aveva, rispetto alla massa degli analfabeti, un pubblico piccolo, ristretto, borghesia, artigiani, non certo contadini, operai, schiavi. E anche se non capivano tutto, come non capivano, capivano il linguaggio, condividevano le convenzioni. Quando si fa la retorica del melodramma “popolare”, nel nostro Risorgimento, si dimentica che quel “popolo” non raggiungeva il 10 % della popolazione della penisola. il Risorgimento fu un movimento d’élite, ristretto, per niente popolare, anzi alla fine solo politico, Mazzini tentò di farlo diventare un movimento di massa, ma non ci riuscì. Il fallimento di Mazzini resta il problema irrisolto dello Stato italiano. Se ne può piangere, ma questi sono i fatti. La società italiana si rispecchia nei Crispi, nei Mussolini, nei Berlusconi, nei Salvini, e non certo nei Gobetti, nei Salvemini, negli Spadolini. Togliatti lo aveva capito. Ma il suo patto con i cattolici ha prodotto la catastrofe di oggi.
Ecco, oggi. La società di massa permette a tutti di usufruire di tutto. Anche di ciò che non è possibile capire al primo impatto. E l’uomo-massa pretende invece di capire tutto e subito e di avere il diritto di giudicare tutto e subito. Pensa che questo sia democratico. Ma democratico non è che tutti possano capire tutto e subito, bensì democratico è permettere a tutti di avere la possibilità di fornirsi quegli strumenti necessari a capire anche ciò che non si afferra subito, anche ciò che richiede informazioni e cultura, oltre che conoscenze specifiche. La fisica quantistica non è democratica perché tutti la conoscono e la capiscono, ma perché tutti, in uno Stato democratico che abbia un sistema d’istruzione democratico, possono studiarla, conoscerla e capirla. Robert Schumann, alle origini della moderna società di massa, scrive al riguardo, in un bellissimo aforisma: “Il filisteo vuole capire in un attimo ciò che all’artista è costato giorni, magari mesi, forse addirittura anni di lavoro”. Il filisteo schumanniano è quello che oggi è chiamato piccolo borghese. Perché poi alla fine si ritorna lì, anche l’arte è una questione di classe. E’ scritta, prodotta da una classe. Per una classe. Se un’altra classe vuole conoscerla e appropriarsene, deve impararla. Non lo dico io: lo scrive Marx nel Manifesto. La cultura di un’altra epoca, di un’altra classe, non la si consuma come un hamburger. La si apprende. Oggi invece la si vuole consumare, subito e in fretta. Un quadro richiede tempo a essere guardato, un libro a essere letto, una musica a essere ascoltata – ascoltata, non semplicemente udita: la differenza è sostanziale.
Invece per un’interpretazione musicale, per esempio, oggi spesso si parla di Pathos partecipato, condiviso, di emozione o di noia. Le emozioni, certo, sono legittime, e anzi fanno parte del rapporto con un’opera d’arte, ma non sono un metro di giudizio, quando se ne voglia parlare o addirittura scriverne. Bach non lo si può ascoltare senza filtri culturali con l’orecchio di oggi, e tanto meno è lecito discuterne. Un musicista così intellettuale come Bach richiede che entrino in campo altri fattori, come appunto la costruzione musicale, il senso di quella costruzione, le teorie musicali del tempo. Non si tratta di essere “ragionieri”, come qualcuno mi rimprovera, quando scrivo queste cose, si tratta, più semplicemente, di rispettare la scrittura, la cultura del compositore e del suo tempo. Bach non è un compositore romantico, che si rivolga all’ascoltatore “ingenuo”, anche se certamente si rivolge anche al sentimento dell’ascoltatore, i suoi intenti sono altri. Allora, ecco che se si entra nella sua logica costruttiva, nel suo bisogno di discorsività, e le si ascolta rispettate, si prova sicuramente un’emozione, anzi un’emozione immensa, molto più profonda di quella, superficialissima, futile, che si prova quando si pensa di avere sentito ciò che ci commuove al primo ascolto.
Faccio un confronto letterario. Dante è un poeta immenso, ed è così efficace che può colpire anche a una prima lettura, ma questa lettura può essere fuorviante. Tutti si commuovono alla storia di Francesca e pensano che Dante le abbia reso omaggio dimenticandosi che è una dannata. Ed è una lettura romantica, totalmente sbagliata, anche se è per esempio la lettura di un de Sanctis. Dante si commuove, invece, per tutt’altre ragioni. Francesca gli si rivolge con il linguaggio dello Stil Novo. “Amor che al cor gentil ratto s’apprende”, ma poi introduce in questo linguaggio particolari di un realismo spiazzante: “la bocca mi baciò tutto tremante”. Non è più il linguaggio dello Stil Novo ma della poesia realistica e, anche, o soprattutto, dei poemi cavallereschi che Paolo e Francesca leggono e che inducono all’adulterio, com’è adultero l’amore di Ginevra e Lancillotto. Ed è ciò che l’ha dannata. Dante sente crollare tutta la sua impostazione spirituale, lo Stil Novo che idealizza la donna, ne fa un angelo salvatore, lo scopre invece ambiguo, deviante, scopre che l’amore non salva, ma può invece portare anche alla dannazione, la donna angelo non è solo angelo, ma è anche un corpo che ti seduce e ti travolge, una bocca che ti bacia. E alla fine del racconto, Dante perciò sviene. Il mondo, un intero mondo filosofico, poetico, una visione della vita, una condotta di vita, gli erano crollati addosso. Doveva pertanto ridiscuterla tutta quanta, la propria vita. Ed è quello che fa con il viaggio nell’oltretomba, per guida la Ragione di Virgilio nei primi due regni, e poi l’angelo divenuto Sapienza, Teologia, Beatrice, alla lettera: che dà beatitudine, nel Paradiso. Ci si rende conto di quanto sia più complessa questa lettura rispetto alla pur affascinante lettura romantica, ma che non riguarda Dante, bensì il lettore romantico? La storia di Paolo e Francesca non è una semplice storia di amore, di adulterio, ma una storia che ridiscute i principi della vita, la filosofia della vita. E la Commedia è un poema filosofico.
Torniamo a Bach. La sua musica si prefigge, tra l’altro, ma non solo, di rispecchiare l’ordine del cosmo con la geometria della costruzione contrappuntistica. Un po’ come tre secoli prima (la cultura di derivazione pitagorica e neoplatonica è la stessa) Dufay nel mottetto per l’inaugurazione della cupola del Brunelleschi aveva costruito il tenor del mottetto sulle proporzioni dei raggi della cupola. È un mottetto sublime. Commovente: nuper rosarum flores, Santa Maria del Fiore. Ma la commozione nasce non solo dalla bellezza oggettiva della musica, bensì anche (o soprattutto?) se si pensa alla complessità del messaggio trasmessa attraverso la complessità della costruzione musicale. Bach, quasi allo stesso modo, vuole utopisticamente rispecchiare l’ordine dell’universo nella sua musica, come fa Brunelleschi nell’architettura, Dufay nel mottetto, come fa Dante, nel suo poema al quale hanno messo mano cielo e terra, ma vuole farlo – e qui sta la novità, la modernità – attraverso un procedere discorsivo, parlante, della musica: l’architettura contrappuntistica c’è, ma non è esibita, non è l’intento poetico, bensì lo strumento della poetica. Lo sforzo, dunque, non si deve sentire, il calcolo (nelle variazioni Goldberg ci sono canoni a tutti gli intervalli e l’intervallo di ciascun canone è dato progressivamente dalla sua collocazione nella serie delle variazioni divisa per tre: la terza variazione è un canone all’unisono, la sesta alla seconda, la nona alla terza, e così via). Ma quest’intelaiatura artificiosa e intellettualistica deve sfociare in un discorso scorrevole, risultare all’ascolto fluida come l’acqua che scorre. Ora, per esempio, tutto ciò nell’interpretazione di Gould si perde. Non c’è l’intelaiatura e non c’è la scorrevolezza.
Molti, anche, avanzano come argomento di giudizio sul valore dell’interpretazione di un musicista, la propria reazione emotiva. Legittima, si badi. Ma non è argomento di giudizio, bensì di gusto. Dire di un’esecuzione: mi fa dormire, è noiosa, non resisto per più di qualche minuto, non è un giudizio: è solo la registrazione di un personale riflesso emotivo, non riguarda né l’interpretazione, né l’opera, ma il proprio reagire all’interpretazione e all’opera. Molti dormono anche alla lettura di un dialogo di Platone o alle interpretazioni mozartiane di Bruno Walter. O esaltano, in contrasto, le inattendibili ed enfatiche interpretazioni di Karajan (sublime in Wagner e Bruckner, ma non certo in Mozart). Reazioni individuali che non costituiscono argomentazione. Si ascoltino con attenzione le interpretazioni scarlattiane o bachiane di Ross sul clavicembalo. E mi si dica solo quanto di quella fluidità discorsiva resta nell’interpretazione di un sempre troppo osannato Glenn Gould. Ecco: zero. E proprio sulla discorsività si regge invece tutta la costruzione musicale bachiana. Tanto che il suo amico Birnbaum, per difenderlo dagli attacchi di un altro professore dell’Università di Lipsia, che accusava Bach di non essere moderno, di essere artificioso, di essere noioso (gli stessi argomenti di alcuni ascoltatori di oggi!) paragona la sua costruzione musicale alla tradizionale (Quintiliano) costruzione retorica di un discorso. Se non si capisce che la musica dal seicento al settecento, prima dell’irruzione dei romantici, che comunque non abbandonano questa impostazione discorsiva, si regge proprio sulla discorsività, sul confronto tra le figure retoriche dell’orazione e il procedere di figure musicali che ne imitano musicalmente il procedimento, si rinuncia a capire due secoli di musica, per intenderci la musica da Frescobaldi a Mozart. L’eccitazione epidermica non ha niente a che vedere con la sensibilità musicale. “Affetto”, o come diremmo oggi, sentimento e sensiblerie, per quanto possa apparire strano, sono un atteggiamento intellettuale e non un solleticamento dei sensi. Avete mai sentito parlare di una Affektenlehre? Manuale dei sentimenti, eh già: manuale! mica istinto incolto. La reazione immediata, dunque, può cogliere il vero senso di un’opera solo se confortata dal necessario bagaglio culturale che l’opera richiede.
Già immagino l’obiezione. Ma come faccio, allora, proprio io che sostengo così decisamente l’indispensabilità di un bagaglio culturale per accostarsi all’opera d’arte, ad amare poi così spudoratamente le messe in scena moderne di opere classiche e barocche, e del teatro in genere? Non tradiscono, queste messe in scena che sfigurano e deformano l’opera, che stravolgono la collocazione temporale dell’azione, non deturpano di fatto l’opera stessa? Ma ci si rifletta. Le messe in scena moderne sono riscritture di opere del passato, riattualizzano il messaggio dell’opera o, più esattamente, lo rendono comprensibile al pubblico di oggi, che non condivide più i codici di quel tempo. L’impressione che una Traviata in costumi della metà dell’Ottocento sia più fedele all’idea che ne ha Verdi di una Traviata ambientata invece nella società di oggi, è un’impressione che nasce da una falsa idea. Perché a Verdi non interessava rappresentare una storia d’amore, ma contava invece proprio sulla percezione della contemporaneità dell’azione, per trasmettere un messaggio sociale, di denuncia sociale. Verdi, in qualche modo, anticipa il teatro borghese di Ibsen, anticipa Casa di bambola. Al pubblico di oggi una Traviata in abiti ottocenteschi fa l’impressione di una storia romantica, sentimentale, strappalacrime. Proprio ciò che Verdi non vuole rappresentare. Sfugge, cioè, la violenza con cui Verdi denuncia l’ipocrisia di una società che impone il rispetto dei ruoli sociali, un matrimonio tra Alfredo e Violetta è insostenibile, inammissibile, perché Violetta è una puttana (così Verdi la chiama nelle sue lettere). Poi, certo, c’è anche la passione di Violetta (di lei, più che di Alfredo), ma è una passione che si scontra contro le convenzioni sociali. La messa moderna mette in rilievo proprio questo scontro, porta in scena il conflitto sociale insuperabile, e perciò Violetta muore come un’eroina tragica, schiacciata dal conflitto. In questo caso, la messa in scena moderna svolge la stessa funzione che in un libro ha la nota a piè di pagina: commenta, spiega, ciò che accade sulla scena, lo illustra allo spettatore di oggi.
Del resto il teatro lo ha sempre fatto, ha sempre rappresentato le storie come storie contemporanee, anche quando sulla scena agivano gli antichi greci o gli antichi romani. Nella Bérénice di Racine, Tito chiama Berenice “Madame” e le dà del voi. Linguaggio della corte di Versailles, e non certo del Palazzo degli Imperatori Romani. Andiamo ancora più indietro: nell’Edipo a Colono di Sofocle, Teseo afferma che prima di decidere se accogliere o no il profugo Edipo, deve consultare l’assemblea, la Bulè, organo certo dell’Atene democratica e non certo dell’Atene monarchica del mito. Ma il pubblico al quale si rivolge Sofocle è il pubblico dell’Atene democratica. La pittura non agisce diversamente. L’Annunciazione di Leonardo non ambienta la scena nel primo secolo avanti Cristo, ma ci mostra una Madonna che è una gran Dama fiorentina del Quattrocento.
In conclusione: l’opera d’arte del passato, o di altri popoli e culture, che sia un libro, un quadro, una musica richiede la conoscenza della cultura che l’ha prodotta, e dunque tempo, fatica, studio. L’impatto immediato è consumistico, falso, fuorviante, a meno che non si possiedano gli strumenti culturali che lo favoriscano. Faccio un esempio estremo: se conosco il greco antico posso permettermi di commuovermi a leggere in greco l’Edipo Re di Sofocle. E ci si commuove, ve lo assicuro, assai più che se lo si legge tradotto in italiano o lo si vede a teatro (ma dipende!). Se conoscete il greco antico, provate a leggere Saffo in greco. Nessuna traduzione rende la violenza espressiva del verso “μόνα κατεύδω” (sola giaccio, sto nel mio letto) che conclude un frammento famoso. Troppo radical chic? E se fosse solo competenza? Oggi tutto si consuma e si vuole consumare in fretta e subito. L’Anello del Nibelungo richiede almeno 20 ore di ascolto. L’Orlando Furioso giornate, mesi di lettura. La Tempesta di Giorgione qualche ora di osservazione per coglierne l’interminabile complessità.
Diverso è il discorso per l’arte di oggi, ma per il semplice fatto che il pubblico al quale è destinata ne condivide, spesso, anche se non sempre, e non per tutti, le premesse culturali. Il che, però, non impedisce che invece a molti, che hanno idealizzato in un passato immaginario il proprio modello di arte, l’arte di oggi appaia astrusa, incomprensibile, cervellotica, o perfino brutta. E così si ritorna al punto di partenza: che l’arte non è rivolta a tutti, ma solo a coloro che hanno gli strumenti culturali per capirne di volta in volta la particolare realizzazione.
L’arte sarebbe, dunque, antidemocratica? Un affare di élite? Di élite, in un certo senso sì, se per élite però s’intenda chi possieda i codici per entrarvi dentro. Può essere dunque anche un intero popolo, o addirittura il mondo intero, per esempio nel caso di un film. O di una fortunata serie televisiva (che può essere arte, non arriccino il naso gli snob che disdegnano ciò che piace a tutti). Ma l’arte non è mai antidemocratica, perché – e ci s’intenda bene – vera democrazia non è essere subito capiti da tutti, ma fornire a tutti, di qualsiasi classe sociale siano, quegli strumenti adatti a capire un’opera d’arte. A questo servono, tra l’altro, i commenti e le messe in scena moderne. Ma a questo dovrebbe servire soprattutto un’istruzione che permetta a tutti, a chi è interessato, a chi vuole, quegli strumenti senza i quali non è possibile accedere al godimento di un’opera d’arte, e non solo di essa, ma di tante altre cose. La più chiara confutazione, infatti, della concezione estetica che Croce ha dell’arte come pura intuizione è dimostrata dal fatto che poi Croce stesso si dimostra incapace di comprendere l’arte che non rientri nei codici di una certa ristretta tradizione letteraria, in particolare di quella italiana postrinascimentale. Dante gli è estraneo, come gli è estranea tutta la poesia moderna da Pascoli a Mallarmé (ma già Leopardi gli riesce estraneo). Poi, per una certa affinità diremmo sentimentale, gli riesce di scrivere pagine mirabili su Ariosto, su Corneille, e perfino su Goethe. Ma di Ariosto non coglie l’irrequietezza, lo scetticismo morale, di Corneille il disincanto barocco nei confronti della realtà – lo stesso di un Pascal, di un Calderón, di uno Shakespeare -, di Goethe l’inquietudine demoniaca, ciò che Freud avrebbe chiamato l’ “inquietante”. Del resto, di Freud Croce si liberò liquidandolo con un motto sprezzante, che non gli fa onore. Se vivesse, gli farebbe bene, gli schiarirebbe anzi, forse, le idee, un breve saggio, pubblicato da poco, di uno studioso francese di filosofia araba, Jean-Baptiste Brenet, Averroès, l’inquiétant. Dante, ammiratore del filosofo arabo, l’avrebbe divorato sillaba per sillaba, infischiandosene della condanna di San Tommaso (che però non esita a saccheggiarlo).