“Condanniamo con fermezza tutte le forme di violenza contro le donne e le ragazze. Le cifre sono allarmanti: una donna su tre nell’Unione Europea ha sperimentato una qualche forma di violenza di genere nel corso della sua vita. Troppe bambine, all’interno e all’esterno delle nostre frontiere, sono costrette a sposarsi o a subire mutilazioni. In molti paesi, più della metà dei femminicidi è commessa da un partner, da un parente o da un familiare, in ambito domestico. Le donne sono inoltre vulnerabili a ogni forma di violenza nelle zone di conflitto e durante le crisi umanitarie”.*
*estratto dall’appello congiunto nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne di Frans Timmermans, Federica Mogherini, Neven Mimica, Dimitris Avramopoulos, Christos Stylianides e Věra Jourová, Bruxelles, 2015.
Domenica 25 novembre si celebrerà come ogni anno la giornata mondiale contro la violenza di genere.
A oggi quest’emergenza sociale è ben lungi da una soluzione radicale se soltanto nel nostro paese dall’inizio del 2018 ben 65 donne sono state uccise da una persona che conoscevano, ex partner inclusi (80,5% ) o dal loro marito o compagno attuale (35,8%) ( fonte Secolo XIX).
Il femminicidio è un calvario tutto al femminile costellato da sofferenza estrema fatta di lacrime e sangue a fiotti a cui nessun legislatore ha, sino a ora, dato la giusta e significativa rilevanza con leggi ad hoc finalizzate a stroncare quello che si configura come una forma vigliacca di risoluzione di problemi di tipo affettivo e sentimentale oltre che relazionale.
La mia proposta di lettura per voi oggi è un mio racconto breve, ‘La stanza della memoria’, storia postuma di una donna vittima di violenza di genere, scritto diversi anni fa per un reading letterario e donato nel 2016 all’Associazione Ellemme diretta da Lorena Marcelli per la realizzazione di un’antologia, ‘Eva non è sola’, tramite crowdfunding i cui proventi sono stati destinati a tre Centri Antiviolenza abruzzesi.
LA STANZA DELLA MEMORIA
Sul comò di legno bianco laccato c’è ancora una cornice portafoto.
Nella foto che racchiude ci siamo io e te, capelli spettinati dal vento e sorrisi al cielo, il mondo intero stretto nel pugno di una mano in due, felici e irridenti. C’è un velo di polvere sottile e persistente sulla cornice dorata in stile veneziano che nessuno ha avuto il coraggio di toccare. Ciononostante, tutto in questa camera dai toni chiari, volutamente rilassanti, ha conservato la fragranza di un tempo.
Il letto dalla testata in ferro battuto decorato con volute e arabeschi sapienti, il comò sovraccarico dei miei gioielli etnici e di un mazzolino di rose secche lasciate appassire lentamente durante il tempo di un’estate mite, indulgente. Ricordi? Me le avevi comprate da un fioraio ambulante che te le aveva legate con un nastro rosso lucente, contro la sfortuna. Un nastro avvolgente come la passione che allora ci univa. C’è anche il tuo dopobarba, disperso tra le mille cose di poca e grande preziosità della mia quotidianità femminile che attorniano questo ritratto così evocativo di un giorno di sereno tra di noi che pure c’è stato: un’immagine unica, bella, radiosa, spettacolare.
“Siamo una bella coppia”, quante volte me l’avrai ripetuto? Non me lo ricordo più. So, però, per certo che all’epoca ci credevo davvero.
Sulla toeletta di legno scuro intarsiato troneggia una lampada dalla base di porcellana chiara con un’impercettibile fessura sul lato posteriore, nascosta all’occhio dei più. Deve quella crepa a un tuo atto di intemperanza, di cui a suo tempo mi hai prontamente chiesto scusa con un sorriso pentito, offrendoti di ripararla. Di comprarne addirittura un’altra.
Io ti ho celato il mio sguardo lucido e ho fatto finta, quel giorno, di osservare, attraverso le tende avorio della portafinestra, la collina e il biancore immacolato delle montagne antiche che tanti nostri risvegli hanno celebrato e salutato. “No”, ho, poi, trovato la forza di risponderti, nell’attimo in cui ho ritrovato un filo di voce. “Non occorre, vedrai che si potrà aggiustare”.
E, giorno dopo giorno, mettendoci tutto l’impegno di cui sono stata capace ci ho lavorato con amore, con speranza, incaponita com’ero a riportarla al suo splendore originario: quello dei nostri momenti migliori in cui felici, innamorati, frugavamo dalla prima all’ultima bancarella dei mercatini di paese alla ricerca di un oggetto qualsiasi che potesse suggellare i nostri primi attimi d’infinito insieme.
La poltroncina in stile è ancora nell’angolo in cui io l’avevo collocata, impregnata dell’odore maschile del tuo corpo sprigionato dai vestiti che eri solito poggiarvi. Le prime volte che facevamo l’amore non occorreva neppure che tu li sistemassi lì: i miei abiti, la tua camicia e il tuo maglioncino finivano frettolosamente in terra e nessuno di noi si dava peso di raccoglierli per lungo tempo. A coprirci bastavano il mio desiderio di te e il tuo di me.
Se spalanco le ante del nostro armadio riesco a percepire ancora la fragranza, sottile e persistente, della mia essenza di donna unita a quella tua, di uomo, nei cassetti, negli scomparti e nei ripiani ora desolatamente vuoti. La nostra vita insieme mi ritorna in mente col suo ritmo lento e pacato iniziale; furioso e tumultuoso, inspiegabilmente frenetico e inumano al suo epilogo. Una fine impietosa, inusitata, brutalmente violenta, che qualcuno ha stentato a credere, leggendo di noi sulla pagina di cronaca nera di un quotidiano locale.
E’ incredibile notare come oggi i muri di questa camera sospesa nel tempo e nello spazio, luogo privilegiato dei nostri pensieri migliori, siano immacolati e perfetti come una volta.
Niente pare averli scalfiti o insozzati. E le parole durissime e le grida di rabbia e di rancore, di timore che pure ci sono state sembrano quasi essere rimbalzate verso l’esterno, verso quell’orizzonte, a volte più nitido da scorgere a volte meno, così speculare e simile alle fasi altalenanti della nostra relazione d’amore.
In questo sentimento io ci ho creduto sino alla fine, sai? Coprendomi il capo di cenere e passando sopra alla tua furia e alle tue giustificazioni pietose, alla profanazione del mio corpo di donna e al cilicio che a un certo punto, sempre più spesso, hai voluto che io indossassi. Per motivi futili, hanno detto alcuni. Per non averti amato abbastanza, mi sono ripetuta a mente io, restando ostinatamente, pervicacemente fedele al giuramento che ti avevo fatto davanti a tutti.
Ho cercato di sorridere anche quando mi sono costretta a guardami per metà nello specchio tondo di camera, nel tentativo maldestro di celare un’ombra violacea su uno zigomo, segno tangibile della tua profonda insoddisfazione verso di me e verso il mio modo di esistere, o un labbro spaccato e dolente, colpevole di aver portato un rossetto per te troppo colorato e vistoso. Le mie scelte estetiche ti sono apparse di volta in volta troppo audaci o troppo poco appariscenti, procurando il tuo fastidio, la tua collera. Un mutare d’accento continuo, il tuo, per me destabilizzante e poco indicativo del tuo reale sentire del momento. Una iattura che non mi ha portato affatto bene e che mi ha condannata a un lento, inesorabile declino, facendomi perdere consistenza e consapevolezza umana, di persona.
Non sono stata capace di guardare al di là del mio naso e la colpa è stata solo ed esclusivamente mia. Forse avrei dovuto e potuto fare diversamente. E’ questo l’ultimo pensiero con cui ho colmato il mio sguardo attonito, interrogativo, mentre il tuo coltello affilato frugava impietoso all’altezza del cuore di questo mio corpo troppo docile, desolatamente arrendevole. Impossibile pensare e credere che tu potessi arrivare a tanto. Eppure l’hai fatto.
Tu, il mio primo e unico amore, il mio compagno di vita, il mio uomo.
In questa stanza dai toni tenui e rassicuranti il mio spirito ha voglia di trattenersi ancora sino a quando il tempo delle risposte non si sarà compiuto.
Di aprire cassetti ossessivamente svuotati. Di accarezzare con la punta delle dita ogni cosa poggiata su quel comò antico con i gesti familiari di un tempo; ridando vita a oggetti che nessuno ha avuto il coraggio di chiudere in uno scatolone e dimenticare nel fondo di un magazzino buio e senz’aria. Sono stata io a suggerirlo con voce bassa e suadente, a farli desistere da questa incombenza pietosa per loro certamente rassicurante. Tutto deve restare così com’era allora sino a quando ce ne sarà ancora bisogno.
Perché io avverto ancora l’esigenza di far ondeggiare e tintinnare le stampelle dell’armadio come al soffio d’aria benevolo e leggero di brezza di primavera, prima di richiuderne con cura le ante fino al prossimo utilizzo.
Desidero coprirmi con leggerezza con un lenzuolo freschissimo di lino ricamato a mano, quello della nostra prima volta insieme, lasciandolo scivolare sulla mia pelle nuda, liscia e levigata di ragazza di un tempo.
Voglio spegnere con dolcezza l’abat-jour sul comodino al lato del letto aspettando pian piano che i miei occhi spalancati sul nulla si abituino al buio profondo e prendano a sondare attraverso le ombre della sera i contorni conosciuti della nostra quotidianità di coppia, mia e tua. In attesa di te e del tuo spirito che ora, ne sono certa, sta vagando in un altrove impensabile e indescrivibile, certamente disumano e ben lontano da questo limbo che mi è stato concesso di popolare con silenzioso e rinnovato dispiacere.
Ancora per qualche giorno, ancora per qualche ora, formulando domande a cui nessuno, per l’eternità, potrà forse più rispondere per noi.
Questa stanza della memoria sarà il nostro sentiero battuto per altri che non avranno scusanti per non pensare, per fingere di non ricordare e poi fuggire con colpevole leggerezza dal dolore e dal prevedibile orrore del mio sangue versato per noi, per loro, per tutti nel chiarore di un’alba ancora troppo vicina per poter dimenticare.
Lucia Guida
E. Degas, ‘Le viol’ (1869), Philadelphia Museum of Art.