Coney Island, inizio anni Cinquanta: Ginny (Kate Winslet) è una ex attrice che lavora come cameriera in un ristorante. Sposata in seconde nozze con Humpty (Jim Belushi), la frustrata donna trascorre la sua esistenza tra il lavoro, la difficile situazione famigliare aggravata dal figlio problematico e la relazione extraconiugale con Mickey (Justin Timberlake), un ex marinaio ora bagnino e studente universitario. A spezzare l’idillio tra lei e il più giovane amante, ci pensa l’arrivo di Carolina (Juno Temple), la figlia di Humpty. La ragazza, in fuga dall’ex marito gangster, trova riparo nella dimora di Ginny e del padre. Ma la comparsa di alcuni sgherri, le continue difficoltà e l’avvicinarsi di Carolina a Mickey, portano Ginny verso una crescente pressione insostenibile.
Capace come pochi (se non addirittura l’unico) a mettere in scena spaccati di vita in cui è possibile trovare cenni di filosofia ed esistenzialismo, lezioni di psicoanalisi e gallerie di paure, l’ottantaduenne regista newyorkese Woody Allen non riesce davvero a stare lontano dalla regia e, a distanza di un anno da Café Society, torna sul grande schermo con La ruota delle meraviglie (Wonder Wheel, 2017). Abbandonata momentaneamente la sua amata Manhattan, ma rimanendo pur sempre nei suoi paraggi, con La ruota delle meraviglie Allen fa nuovamente centro, confezionando un lungometraggio in cui tutte le sue ossessioni (personali e non) e le sue idiosincrasie verso Hollywood e dintorni, prendono nuovamente forma nell’arco temporale di cento minuti. Alla sua quarantanovesima prova dietro la macchina da presa, Woody Allen mette sotto la lente la vita (e le sue complicazioni) durante i Fifties, quei favolosi anni Cinquanta che hanno rappresentato la piena ripresa di una Nazione (quella americana) uscita vittoriosa dal Secondo Conflitto Mondiale.
Ampliando a dismisura la sua innata capacità di raccontare l’esistenza e le sue migliaia di sfaccettature e, di pari passo, allargando anche il campo d’azione della stessa macchina da presa, Allen in La ruota delle meraviglie dà vita a un melting pot variegato e colorato, ritraendo un campionario di casi umani e personaggi che spaziano dal ridicolo al grottesco senza soluzione di continuità: è il caso della sua protagonista, la Ginny interpretata con fervore e verve da Kate Winslet, la quale riesce a dare anima e corpo a una donna segnata dal passato, che ha dovuto rinunciare ai suoi sogni di diventare un’attrice famosa, provata da una continua emicrania e dall’impossibilità di fuggire dalla sua condizione; Ginny trova sollievo solo nella relazione clandestina con Mickey, farfallone e presunto cosmopolita che con nonchalance, passa dalla relazione ai flirt con Carolina, ragazza che pensa più alle apparenze senza ragionare sulla gravità delle azioni. A completare la galleria di personaggi sui generis ci pensano Humpty, marito limitato nella sua visione delle cose e incapace di andare avanti senza un punto di riferimento fisso e Richie, il complicato figlio di Ginny che odia andare a scuola ma ama isolarsi nel buio di una sala cinematografica, parla poco ma esterna il suo disagio fanciullesco dando sfogo alla sua indole da piromane.
Tra continui battibecchi, urla, porte sbattute, incontri amorosi consumati in fretta e peregrinazioni solitarie lungo la spiaggia, Allen pedina – in modo zavattiniano – i suoi personaggi/creature che, in preda al non sense della loro stessa vita, cercano in tutti i modi di rimanere a galla pur di non affogare in un presente fatto di nulla e privato da qualsivoglia rosea aspettativa per il futuro. La ruota delle meraviglie è un giro, anzi, un teatro di vite tra giostre e crisi esistenziali in mezzo al piattume di una realtà statica quanto opprimente e che si consuma sotto le luci del luna park e l’acciaio della ruota panoramica che dà il titolo al film stesso. Ma ancor prima di essere l’ennesimo (ma non per questo banale) sfoggio di nevrosi esistenziali La ruota delle meraviglie è – senza dubbio alcuno – l’incontro tra teatro e cinema, due arti apparentemente distanti ma accomunate dalla figura dell’attore che, grazie alle sue capacità recitative, riesce a vivere, sul palco o sulla pellicola, altre vite lontane da quella reale e quotidiana. E questo è ciò che vorrebbe fare la Ginny di Allen per evadere dal suo perenne status di donna sull’orlo di una crisi di nervi ma, nel momento in cui le “luci” si spengono insieme ai vividi e sgargianti colori per far avanzare tonalità cromatiche più fredde e veritiere, Allen elimina ogni possibile via di fuga e, con essa, la speranza di una (ri)nascita personale e amorosa, in modo tale che La ruota delle meraviglie decodifichi il messaggio celato dietro le sue tragicomiche scene: quello di un sempiterno loop che non offre spazio ad altro.
Comedy drama dai toni sì caustici ma priva di quell’humour intellettuale, La ruota delle meraviglie è un’opera filmica che racchiude in sé riferimenti letterari, teatrali e di metacinema (diretto e indiretto), che si incastona al millimetro nella filmografia di Woody Allen. Con un cast azzeccato (su cui spicca Kate Winslet, mattatrice dell’intera storia), una fotografia esteticamente abbacinante firmata dal tre volte premio Oscar Vittorio Storaro e dall’inconfondibile regia dall’intrinseco touch alleniano La ruota delle meraviglie, in ultima battuta, si conferma come un’amara parabola sull’esistenza che, al pari di un giro di giostra, a volte può sorprendere e divertire mentre, a volte, può anche deludere.