Ancora due riflessioni sull’Ecuba di Euripide. Una tragedia acclamata già dagli antichi, e dai bizantini – era tra le più lette di Euripide insieme all’Oreste e alle Fenicie – e ammirata dal Cinquecento fino alle soglie dell’Illuminismo. Oltre a Seneca è il modello anche di alcune tragedie di Shakespeare – Titus Andronicus, Richard III, – di Webster, di Ford. Nel Settecento e poi, soprattutto nell’Ottocento, quando la giustizia è intesa soprattutto come obbligo dello Stato e la morale comune tende a condannare gli eccessi, sembra arcaica, ferina, eccessiva la vendetta che Ecuba si prende sull’assassinio del figlio: accecare Polimestore e ucciderne anche i figli pare un comportamento da belva, barbarico. Agamennone, invece, approva il comportamento di Ecuba in una sorta di processo sommario, giudicando l’accecamento di Polimestore e l’uccisione dei figli una giusta punizione. In qualche modo nuoce a Euripide la pubblicazione di Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, e un nuovo senso, una nuova concezione della giustizia. Non si dimentichi che le esecuzioni capitali, i roghi degli eretici, erano pubblici. La gente vi assisteva come a una festa, il condannato veniva insultato, coperto di sputi, l’esecuzione era una sorta di vendetta collettiva contro chi aveva infranto un codice. Del resto ancora oggi negli USA i parenti delle vittime possono assistere all’esecuzione dell’assassino. E nella Roma governata dai Papi la decapitazione del condannato avveniva sulle pubbliche piazze. All’inizio dell’Ottocento, Stendhal racconta di uno sventurato che doveva essere decapitato, e lo vede condotto al patibolo in mezzo a una folla urlante, la testa appoggiata sul ceppo, ma il boia sbagliò il colpo, lo ferì a un braccio, alla spalla, prima di troncargli di netto la testa, tra urla, acclamazioni e imprecazioni della folla. Nel Cinque-Seicento chiunque arrivasse a Londra, attraversando il Ponte di Londra, avanzava tra picche che infilzavano le teste dei decapitati. Lo racconta con efficacia Maggie O’Farrell nel suo bellissimo romanzo Hamnet, forse l’evento letterario di questi anni (malamente tradotto in italiano il titolo con In nome del figlio, splendido invece il lavoro di traduzione di Stefania De Franco). Insomma l’orrore delle uccisioni era quotidiano. Così come quello delle vendette familiari. Lo racconta assai bene Kadaré nel saggio dedicato a Eschilo (ne esiste solo una traduzione francese). E ne documenta il perdurare nei costumi dei Balcani, in particolare nell’Albania. Ma, come spiega assai bene Luigi Battezzato nell’Introduzione all’edizione dell’Ecuba curata per la B.U.R. il processo del concetto di giustizia già nell’antica Grecia dal periodo arcaico a quello classico non né lineare né univoco. Come del resto non sarà né lineare né univoco fino ad oggi. E riesce spesso difficile distinguere la punizione dalla vendetta. O viceversa. Mi chiedo: e perché? Invece oggi ci si riesce? In quanti processi l’opinione pubblica – e spesso la stessa magistratura, non parliamo delle forze di polizia – ha cercato non il colpevole effettivo, ma comunque un colpevole? E quante volte le vittime di un crimine si sono sentite offese, oltraggiate da una sentenza a loro parere troppo benevola? E quale consenso attirano le battaglie per il rispetto dei diritti anche di un condannato, e perfino di un carcerato, tanto più di un carcerato di cui ancora non sia stata provata la colpevolezza? Quasi nessuno. Anzi suscitano spesso riprovazione: in fondo se stanno in galera se lo saranno meritato, si dice.
Euripide
Queste domande vengono spontanee anche alla lettura dell’Ecuba di Euripide. Ed è quanto invece sfuggiva agli inorriditi illuministi promotori di un progresso lineare del concetto di giustizia. Inorridivano, e inorridisce il lettore, lo spettatore di oggi, davanti a ciò che gli sembra, da parte di Euripide, un’assoluzione del crimine. Su questo punto coglievano meglio il senso della tragedia i bizantini e i lettori rinascimentali e barocchi. Euripide non giudica, non condanna e non assolve: rappresenta. Sta al lettore, al pubblico, reagire, elaborare un giudizio. Gli elementi, però, per una riflessione gli dispone tutti. Quando Odisseo si presenta a Ecuba per annunciarle che sua figlia Polìssena dovrà essere sgozzata sulla tomba di Achille, perché lo richiede l’intera truppa degli Achei, con un voto unanime (e vedremo che questa unanimità in realtà è estorta), questo sacrificio della nemica vinta e catturata, Ecuba gli oppone che una volta lei l’ha salvato, quando è entrato furtivo a Troia e fu riconosciuto da Elena: ma né lei né Elena lo denunciarono, sarebbe stata la sua morte. Odisseo riconosce di essere stato salvato da Ecuba, ed è disposto a salvare a sua volta la regina sconfitta, ma non sua figlia Polìssena, che l’intero esercito vuole sacrificata, per i dieci anni di sofferenza passati durante l’assedio della città. Non può, dice Odisseo, contrastare la volontà del “popolo”. Ecuba ribatte con parole durissime. Odisseo ha riconosciuto che le deve la vita. Ma lei: “e questo non dimostra il tuo squallore, se proponi il sacrificio? Hai ricevuto da me i favori che tu dici, e non fai nulla per noi: anzi, ci fai tutto il male che puoi. Voi che cercate gli onori dati a chi parla alle folle – quanto è ingrata la vostra razza, demagoghi! Ah, se io potesi non conoscervi! A voi non importa di far male agli amici, se soltanto riuscite a dire qualcosa che fa piacere alle masse”. La parola demagogo l’ha già usata poco prima il Coro, affibbiandola a Odisseo, quando con il suo discorso convince anche la parte reticente dell’esercito acheo a sacrificare la figlia di Ecuba. Vedete dunque, quanto è complessa, intricata, la trama di argomenti, problemi, questioni, che Euripide sta tessendo? Sfida perfino la verisimiglianza, attribuendo al periodo mitico degli eroi omerici i costumi, gli usi, la legislazione in atto nell’Atene democratica del V sec. a. C. Ma perché è a quell’Atene che sta parlando, al pubblico della democrazia ateniese Euripide sta ponendo il problema di che cosa sia la giustizia. Lo propone all’Atene democratica che aveva massacrato tutti i maschi dell’isola di Melo, colpevole di volere uscire dall’alleanza. In quell’occasione Ecuba, di nuovo Ecuba, lamentando il nipotino Astianatte sullo scudo del padre Ettore, il bambino che gli Achei avevano gettato in sacrifico giù da una delle torri della città, mentre la città in fiamme crolla, grida ai vincitori: “Ci chiamate barbari! Ma i veri barbari siete voi Greci, che per affermare la vostra superiorità non vi vergognate di uccidere un bambino”. Sono più o meno queste le sue parole, nelle Troiane, tragedia che non fu bene accolta dal pubblico. Quindi il sacrificio di Polìssena non è un atto di guerra, di giustizia militare, ma un assassinio fomentato da un demagogo. La tragedia però non finisce qui. Come dice lei stessa, i dolori non hanno fine. Sulla spiaggia – πλάκα, plaka, come si chiama ancora oggi in Grecia la spiaggia – è ritrovato il cadavere di un altro figlio di Ecuba: Polidoro. Ne avevamo visto nel prologo il suo spettro: ἄκλαυτος ἄταφος, áklautos átafos, illacrimato insepolto: ucciso dal re di Tracia Polimestore, al quale Priamo aveva mandato il giovanissimo figlio per sottrarlo alla rovina di Troia. E insieme al figlio un carico di molto oro, per la sua sopravvivenza dopo la fine di Ilio. Ma quando Polimestore vede crollare la città, uccide Polidoro e lo getta nel mare, per appropriarsi dell’oro. Ecuba chiede ad Agamennone il diritto – il diritto! – di vendicarsi. Per i Greci era infatti un diritto equiparare i danni, ricompensare le perdite, pagare il fio di una mancanza, di una sottrazione. Elettra, nella bellissima tragedia omonima di Sofocle, alla sorella Crisotemide che le consiglia la prudenza dei sottomessi, risponde: “Chi soffre ciò che io soffro, ha diritto di vendicarsi”. Ecuba risulta convincente. Agamennone glielo concede. Ma non immagina fino a che punto possa arrivare una madre disperata. Lo dice lei stessa, all’inizio della tragedia: “Ah, come mai potrò gridare nella mia disperazione?” Tende una trappola a Polimestore, lo attrae con il miraggio di un tesoro, nella tenda, insieme ai suoi due figli bambini. Uccide, con l’aiuto delle serve che trattengono il padre, i due bambini, e poi gli cava con le proprie mani gli occhi. Polimestere chiede giustizia – di nuovo questa parola! – ad Agamennone, che si faccia giudice. C’è una sorta di processo con rito abbreviato. Polimestore dice di avere ucciso Polidoro per eliminare un nemico dei Greci. Ecuba gli controbatte che lo ha ucciso per l’oro. Agamennone assolve Ecuba. Ma Polimestore, ispirato da Dioniso, preannuncia a Ecuba che sarà trasformata in una cagna e annegherà nel viaggio che la conduce schiava in Grecia. Ad Agamennone annuncia che ritornato a Micene sua moglie Clitennestra lo ucciderà. “Fermate quella bocca!” urla Agamennone. “Otturatemela pure: ormai ho parlato” dice Polimestore. Agamennone ordina che sia abbandonato in un’isola deserta. Il Coro di donne troiane prigioniere e condotte in schiavitù conclude l’azione: “Andate al porto, alle tende, amiche care. / Proverete le fatiche / che c’impongono i padroni: è dura la Necessità (ἀνάγκη, ananke)”. È il colpo finale. Sono le parole che all’inizio dell’Agamennone di Eschilo pronuncia la guardia, quando vede il fuoco che annuncia la caduta di Troia: sono finite le fatiche. Qui invece le fatiche cominciano. Ma il riferimento a Eschilo, all’Oresteia, non è casuale. Oreste, nel lungo e combattuto processo che subisce nell’ultima tragedia della trilogia, Le Eumenidi, è assolto per un solo voto, quello della dea Athena. La giuria dell’Areopago si era infatti spaccata in due parti uguali, una che lo assolve, l’altra che lo condanna, per il matricidio. Eschilo, nel momento in cui propone che le contese siano discusse da un tribunale cittadino e non affidate alle vendette personali, pone in un equilibrio instabile la bilancia della Giustizia. Sembra che l’opera umana non sia capace di attuarla sulla terra, senza un intervento divino. La religiosità di Eschilo è profonda, ed è sicuro che Dike, la Giustizia, sia attuata in terra per volontà di Zeus. Euripide non ne è più così sicuro. E non ne era già sicuro Sofocle: nel prologo dell’Aiace, Athena fa vedere a Odisseo, il suo protetto, Aiace impazzito che ha sgozzato un gregge credendo di uccidere gli Achei. E gli chiede: “Hai visto” Odisseo risponde: “Ho visto, e ho paura”. Gli dei sono imperscrutabili. Nell’Elena il Coro si chiede: Che cosa è il divino? Che cosa il non divino? E che cosa ciò che sta nel mezzo?” Qui, nell’Ecuba, Polimestore si dice ispirato da Dioniso. Nell’ultima tragedia, Le Baccanti – tra i drammi più sconvolgenti mai scritti – è lo stesso dio che spinge la madre a uccidere il proprio figlio, perché colpevole di avere dubitato che lui fosse un dio. Oggi qualcuno legge in Dioniso l’irrazionale. Ma è lettura semplificante. Euripide non è ateo né tanto meno irreligioso. Ma non per questo non si pone il problema del nostro rapporto con l’inspiegabile. Forse possiamo supporlo vicino alle posizioni di Socrate. In ogni caso è un drammaturgo di profonda umanità, che ha una profonda pietà per le sventure umane. Nell’Elettra, dopo il matricidio i due fratelli si guardano e Oreste chiede: “Che cosa abbiamo fatto? Abbiamo ucciso nostra madre?” Eccoci al nodo dove volevo arrivare. La verità, il destino, non sono qualcosa data una volta per tutte, circostanziata, certa. Sono un problema, di cui di volta in volta, secondo necessità – vale a dire secondo le condizioni reali in cui ci troviamo – va trovata la possibile soluzione, sempre però sapendo che una risposta definitiva, conclusiva non esiste. Insomma la tragedia – e non solo quella di Euripide – non dà risposta, non rivela certezze, apre problemi, invita alla riflessione. Ciò che Aristotele chiama catarsi – purificazione – è la consapevolezza del fatto, del problema, l’individuazione del male. Perché la tragedia non ci mette sotto gli occhi il bene della vita, ma il suo male. Il bene è la ricerca, l’uscita dall’angoscia, la conoscenza di ciò ch’è male. Nelle azioni di Odisseo, di Agamennone, di Ecuba bene e male sono intrecciati, indissolubili. Come nelle azioni di chiunque. Il giudizio, se giudizio proprio si deve dare, è dovuto alla loro sofferenza, alla ricerca, in ciascuno per vie diverse, di un’uscita dal labirinto, hanno tutti bisogno di un filo di Arianna, come Teseo, per uscire dal labirinto, anche il “malvagio” Polimestore, che però a renderlo malvagio è solo la bramosia dell’oro, e che per questa bramosia degrada, dimentica la sua natura di uomo, tradisce il rispetto che un uomo deve all’ospite, allo straniero, per un Greco la più grave delle colpe. Un eccesso di furia nella vendetta di Ecuba? E chi siamo noi per giudicare dove deve fermarsi la furia di una madre alla quale è stato ucciso a tradimento un figlio? Euripide non la giustifica. Sarà tramutata in cagna e annegherà. Ma nemmeno la condanna. Ci mostra la sua sofferenza, ed è per questo che invece di essere un noioso moralista è un grande drammaturgo. “Accadrà qualcosa: arriverà qualche canto / di pianto per chi già sta piangendo. / Il mio cuore non ha mai sentito un orrore, / un terrore così accanito”. “La mia vita, qui nella luce, non ha più gioia per me”. Qualcuno dirà: ma dove finisce il senso morale se ogni azione diventa comprensibile, ma nello stesso tempo ambigua, ingiudicabile? Rispondo: e che c’entra, qui, il giudizio morale? La morale non è limitata a giudizi di assoluzione o di condanna. La morale è indagare la complessità dell’agire umano, senza pregiudizi, alla lettera: cercare di capire – il che non è giustificare, si fa sempre confusione tra capire e giustificare – cercare di conoscere. La tragedia è un atto della conoscenza, non della morale, ma è morale proprio perché fa conoscere ciò che altrimenti non conosceremmo. La morale sta nella coscienza di chi legge, di chi assiste allo spettacolo, e partecipa agli eventi, e attraverso gli eventi viene a conoscere dai personaggi qualcosa di sé che non conosceva, ed è morale appunto questo riconoscimento di una similitudine, di un’affinità, che al di là degli atti, anche terribili, o proprio perché terribili, la tragedia introduce nella coscienza la consapevolezza di che cosa sia essere uomo, nel bene e nel male, e per questa consapevolezza rifuggirà dal facile giudizio di condanna, sostituendolo con l’atto della comprensione. Qualcosa di analogo lo dice perfino Gesù: non giudicare se non vuoi essere giudicato. E con Gesù ci troviamo in un mondo stratosfericamente lontano dal mondo greco, lontano soprattutto da Euripide. Tuttavia questa non indifferente affinità dovrebbe farci riflettere. Perché, chi sa, alla fine è morale proprio la conoscenza che sospende il giudizio, immorale quella che si affretta a pronunciarlo, senza chiedersi se il giudicato sia davvero colpevole di ciò di cui lo si accusa. È una – non la sola – delle ragioni che rendono inammissibile la pena di morte, la possibilità di condannare un innocente. Ci soccorre Beccaria: piuttosto che condannare un innocente, nel dubbio meglio assolvere un colpevole. Ma con simili discorsi scavalchiamo Euripide, che nell’Ecuba ci rappresenta, e con il magistero insuperato che più di due millenni gli riconoscono, un groviglio inestricabile di passioni, di fronte alle quali l’unica nostra risposta veramente morale è la pietà. Il resto, come ci suggerisce Amleto, è silenzio.