La città morta
di Gabriele D’Annunzio
Biennale Teatro 2020 di Venezia
Adattamento e regia: Leonardo Lidi
Con: Christan La Rosa, Mario Pirrello, Giuliana Vigogna
Scene: Nicolas Bovey
Costumi: Aurora Damanti
Suono: Dario Felli
Produzione Teatro Stabile dell’Umbria e La Corte Ospitale
22 settembre2020
Penso che la critica italiana – letteraria, teatrale, artistica, musicale e cinematografica – abbia da sempre, ma in modo ancora più radicale negli ultimi anni, un vizio d’impostazione: confrontarsi con il testo, con l’opera, non già partendo dall’opera, dal testo, esaminandone e analizzandone il soggetto, il carattere, la configurazione, indagando le poetiche, le intenzioni, insomma ciò che l’opera vuole dire, significare, proporre, suggerire, bensì sovrapponendo al testo, all’opera, parametri di giudizio preesistenti, indipendenti dal testo, dall’opera, e confrontando l’adeguarsi o no del testo, dell’opera a tali parametri.
Esemplare la stroncatura che Gian Luigi Rondi scrisse di un capolavoro come Gertrud di Dreyer. Qual era, per Rondi, il difetto del film, tale da farlo considerare un film sbagliato, un non film? Che i personaggi parlano troppo, che il film sembra più la registrazione di uno spettacolo teatrale che un vero e proprio film. Il presupposto di un tale giudizio sul film di Dreyer da parte di Rondi è che il cinema sia soprattutto elaborazione di immagini, rappresentazione per immagini e che il dialogo costituisca di fatto un elemento secondario, più teatrale che cinematografico. Il presupposto – appunto un parametro che precede il film analizzato – è che esista il cinema che è cinema, e il cinema che non è cinema. Il cinema che è cinema ubbidisce a criteri per i quali è cinema – più specificamente la rappresentazione per immagini –, mentre invece il cinema che non è cinema li disattende. Il vizio – o la fallacia – del giudizio di Rondi sta appunto nel giudicare il film non per quello che è e che vuole essere e suggerire, ma per ciò che un film dovrebbe essere e quel film non è.
Il vizio di una simile impostazione critica è simile al pregiudizio inconsapevole del visitatore ingenuo di una mostra di arte moderna che davanti a un’installazione esclama: questa non è arte, perché per lui l’arte è Raffaello, Caravaggio, al massimo gli impressionisti, ma non un’installazione. Ci si fabbrica un modello di ciò che dovrebbe essere l’opera e se l’opera con cui ci si confronta non corrisponde al modello, allora è un’opera sbagliata o addirittura una non opera. Ora, la critica letteraria, e quella teatrale – e da noi il teatro lo si legge quasi sempre da una prospettiva letteraria più che teatrale, se dici che in fondo l’Amleto è un copione ti strangolano – in genere giudica l’opera sempre in base a idee preconfigurate, letterarie, contenutistiche, ideologiche, di gusto, che non s’interrogano mai sulla reale configurazione dell’opera che si esamina. Gabriele D’Annunzio, di cui Leonardo Lidi mette in scena alla Biennnale Teatro di Venezia La città morta, è da sempre stato letto, in Italia, da una prospettiva critica che non lo riguarda: sia da chi lo esalta sia da chi lo respinge. Lui stesso si è, è vero, prestato all’equivoco, ed è stato perciò letto da una prospettiva non letteraria, non teatrale, bensì o politica o contenutistica, ma vi si è prestato, tuttavia, fino a un certo punto: nella realtà non ha mai nascosto le sue vere intenzioni: letterarie, teatrali, ideologiche. In questo condivide l’incomprensione della critica e spesso anche del lettore, del pubblico, con Pirandello, anche lui letto da una prospettiva estranea ai suoi scritti tanto letterari che teatrali. Perfino un critico dell’acume di Benedetto Croce si è lasciato, infatti, intrappolare dall’equivoco, e stronca il romanzo e il teatro di Pirandello per la supposta fallacia del suo pensiero e non per l’esito letterario o teatrale dell’opera. La città morta è il primo dramma di D’Annunzio, anzi la sua prima “tragedia”. Si apre con la lettura di brani dall’Antigone di Sofocle.
“Eros nella pugna invitto,
Eros, che precipiti le fortune,
che su le molli gote
della vergine ti poni in agguato,
che erri oltremare e per le capanne agresti!
E nessuno tra gli Immortali può fuggirti
e nessuno tra gli uomini efimeri, e chi ti ha è furente”.
Il protagonista, Leonardo, è un archeologo che scava, come Schliemann, figura reale che è il modello delpersonaggio, nelle rovine di Micene. Sua moglie Anna è cieca e, quando si apre il sipario, sta ascoltando la sorella di Leonardo, Bianca Maria, leggere passi dell’Antigone di Sofocle. Di Bianca Maria è innamorato il poeta Alessandro (che Lidi rinomina Gabriele, e ne fa quasi l’autoritratto di D’Annunzio, ma anche una sorta di sosia di Danny Zuko, da Zoo di vetro di Tennessee Williams), e Alessandro/Gabriele è un amico di Leonardo. Ma di Bianca Maria è preso anche lo stesso fratello Leonardo. Eros ha preso anche lui e lo ha reso “furente”. La firma di D’Annunzio si ascolta già all’attacco della tragedia, con quell’ “efimeri”, una effe sola, etimologicamente corretto, ma divergente dall’uso ormai stabilitosi nella lingua italiana: effimeri. Sta già in questa premessa, in questo attacco, il senso del dramma: Eros infuoca i sensi, abbatte le cime degli alberi, direbbe Saffo, e Leonardo soffre come una maledizione il “mostro” – così lo chiama lui stesso – che in lui le fa desiderare la sorella di una passione torbida, sporca, tutta carne, senza niente di “puro”, di ideale che innalzi “l’anima”. Quest’illusione di purezza, più che insincera, è falsa, o Kitsch, è il racconto sanremese che gli italiani si raccontano a sé stessi dell’Italia. Ecco spiegate le citazioni di Bobby Solo e Tony Renis.
Evidenti, come s’è detto, i riferimenti alle scoperte di Schliemann, l’archeologo “dilettante” scopritore di Micene e di Troia. Ma proprio questo, proprio il riferimento a un archelogo che non è tale, avrebbe dovuto mettere in guardia lo spettatore e il lettore della tragedia. D’Annunzio si comporta nei confronti dell’eredità classica non diversamente da Hofmannsthal. La città morta è del 1896, rappresentata la prima volta nel 1898, a Parigi da Sarah Bernhardt e a Milano da Eleonora Duse. Pubblicata da Treves nel 1900: Treves era (l’editore triestino ed ebreo morto nel 1916, il cui successore fu spinto dalle leggi razziali nel 1938 al suicidio e la cui azienda fu prelevata, nel 1939, da Garzanti). L’Elektra di Hofmannsthal fu rappresentata e pubblicata nel 1903. Hofmannsthal rielabora e riscrive la tragedia di Sofocle. Nel 1905 Richard Strauss fa rappresentare a Dresda l’opera che utilizza la tragedia di Hofmannsthal come libretto. L’operazione, di D’Annunzio, Hofmannsthal e Strauss è la stessa: riscrivere l’antico per rappresentare l’oggi (Elektra, sia in Hofmannsthal sia in Strauss è un’isterica: Freud sta dietro l’angolo).
Dunque, l’accusa a D’Annunzio di non essere riuscito a riscrivere la tragedia, come si scrive nelle storie letterarie e teatrali italiane, è sbagliata, perché D’Annunzio non vuole restaurare il teatro antico, ma usare l’antico per scrivere il moderno. L’incesto non è un ingrediente estraneo nello sviluppo della vicenda, per richiamarsi al mito antico, ma un’esigenza attuale di raccontare un impulso condannato dalla morale corrente attraverso la maschera dell’antico. D’Annunzio è consapevole di rivolgersi a un pubblico che rifiuta l’incesto come inaccettabile, contro natura, e usa il mito per affermare che invece non c’è niente di più naturale: l’impulso sessuale, in sé, non è né giusto né sbagliato, né morale né immorale, ma amorale, vale a dire che riguarda la natura, non la morale. Freud l’avrebbe abbracciato, perché scrive esattamente le stesse cose. Leonardo Lidi, il regista, parte da qui. Dà per scontato che l’antico è solo una maschera per dire altro. Ed ecco che, come per miracolo, D’Annunzio non solo diventa comprensibile, ma attualissimo. “È così che un D’Annunzio senza freni, ridicolo e violento, si approccia al Teatro. Riscrivendo la Tragedia, buttando sul palcoscenico le sue pulsioni personali e condendole di Antigone, Ifigenia e Cassandra, di Grecia e delitti fratricidi e, ovviamente, incesti e fiumane d’amore estivo” scrive nelle note di regia. Ma va oltre, e aggiunge che il regista “sfida il testo e la nomea teatrale dell’autore per permettere a sé stesso e allo spettatore un personalissimo viaggio tra inaspettato divertimento e pura poesia”. “Che cosa c’entrano Little Tony e Bobby Solo nella prima opera teatrale del Vate?” si domanda. E che cosa c’entra lo Zoo di vetro di Tennessee Williams? Riflettiamoci. La scena rappresenta la gradinata di un campo di tennis, di una piscina, di un campo sportivo. Vi si aggira a un certo punto Giggino che vende bibite “pure”. Ecco la contemporaneità che squarcia, provocatoriamente, scandalosamente, l’Italia di oggi, la insulta, la deride. La ridimensiona e la ridicolizza. Come già si era capito con l’irruzione di Bobby Solo, della “lacrima sul viso” e poco dopo di Little Tony. I personaggi s’inventano una tragedia sublime che non c’è, un mondo ideale che è solo invenzione: la realtà sono le pulsioni elementari del sesso, che sublimate si accettano, riconosciuto per ciò che sono si negano, si cancellano, si eliminano: alla lettera, uccidendo chi le provoca. Come un atto espiatorio, di liberazione, di purificazione. Ammazzata la creatura che scatena il caos della libido, la realtà è sanata, purificata, la finzione della purezza può continuare a prevalere.
“Ah, quando s’è chinata su l’acqua per bere… Ho udito il primo sorso scorrere nella sua gola… mi pareva ch’ella bevesse dal mio cuore, che in quel sorso passasse tutto il dolore sofferto, tutta l’esistenza vergognosa, e ogni conoscimento, e ogni memoria, e l’intero essere mio…”
“Per poterla riamare cosi, io l’ho uccisa; perché tu potessi amarla cosi sotto i miei occhi, tu non più separato da me, tu senza più crudeltà e senza più rimorso, per questo, per questo io l’ho uccisa… o fratello, o fratello mio nella vita e nella morte, riunito a me, per sempre riunito a me da questo sacrificio che io ti ho fatto… Guardala, guardala! Ella e perfetta; ora ella è perfetta. Ora ella può essere adorata come una creatura divina… Nel più profondo dei miei sepolcri io l’adagerò e le metterò intorno tutti i miei tesori…”
La declamazione delle illusioni può far ridere. E oggi certi atteggiamenti del D’Annunzio decadente possono fare ridere. Ma allora dovremmo ridere anche di Hofmannsthal, di Proust, e perfino di Joyce. Senz’altro di Gide. Ma se invece con un atto di umiltà leggessimo nella loro “poesia”, più che un ritratto, una denuncia dell’inadeguatezza all’oggi, della perenne inadeguatezza al presente, che sembra la condanna di tutte le civiltà nel momento del loro declino? Ecco che allora D’Annunzio ci dice la nostra d’inadeguatezza, la nostra di maschera che cerca di nasconderla. Più che mai, proprio noi italiani, vanitosi osservatori del nostro ombelico, ma incapaci di guardare oltre il proprio naso. Le bibite di Giggino sono l’attuale retorica di un paese che non si è mai voluto vedere per ciò che è. La retorica dannunziana aveva invece dalla sua di palesarsi come tale, e di denunciare dunque, per contrappasso, la miseria del reale. La retorica attuale non ci propone nessuno specchio, nessuna sublimazione, nessun confronto con un altro possibile, ma riproduce come alternativa, come sublimazione, la stessa, inaccettabile, miseria del reale, mascherandola però per un’uscita dalla miseria. D’Annunzio, Pirandello, Hofmannsthal ci dicono invece che la miseria del reale è – come bene ci spiega Eliot – “irredimibile”. E il sogno, l’illusione, la retorica non sono una fuga da questa miseria, bensì l’unico strumento in nostro possesso per smascherarla. Maschere nude ha chiamato Pirandello il suo teatro. La maschera di D’Annunzio pretende antenati più nobili della Commedia dell’Arte, addirittura i tragici greci. Ma per concordare sullo stesso presupposto: il teatro, presentandoci le maschere con cui amiamo occultarci, le manifesta appunto per maschere, e per ciò stesso incolpa, accusa, denuncia il reale che, per evitarne l’impatto distruttivo, ci costringe ad indossarle.
Leonardo Lidi si avvale di tre attori formidabili, Christan La Rosa, Mario Pirrello, e Giuliana Vigogna, che si alternano in tutti e cinque i ruoli previsti da D’Annunzio, aggiungendo significato alla moltiplicazione dei significati del testo. Non si perde un attimo. E si segue con partecipazione la recitazione molteplice, ora frenetica ora calma, dei personaggi, la loro identità fluida, ciascuna esondante nell’altra. La scena ipermoderna, iperrealistica, contribuisce al distanziamento tra azione e testo, alla loro divaricazione. Applausi trionfali, com’era giusto, da parte del pubblico accorso al Teatro Goldoni.
Ma lo spettacolo, la riflessione sullo spettacolo merita un corollario. Si è parlato di tradizione. Di realtà. Di teatro come maschera. E se tutta l’arte fosse una maschera dell’impossibile conoscenza del reale? Se tutti i nostri discorsi sulla verità, sulla fedeltà filologica al passato fossero maschere di un discorso impossibile sul reale? D’Annunzio si rivelerebbe come uno straordinario demistificatore, proprio perché la maschera la indossa come maschera e non come realtà. Leonardo Lidi avrebbe colto allora proprio questo aspetto del teatro dannunziano. E D’Annunzio ci si rivelerebbe allora come un drammaturgo scomodo, che ci sbugiarda. Sbugiarda la nostra pretesa di avere capito come funzionano le cose. Non abbiamo, in realtà, capito niente. Continuiamo a indossare maschere, ma senza la consapevolezza che si tratta appunto di maschere e non di realtà.
E’ di fatti un fenomeno assai complesso, quello della tradizione. Pericoloso, infatti, parlare di tradizioni, come se fossero una realtà indiscutibile. Spesso sono, invece, ciò che a un certo punto un popolo o una sua parte crede che lo sia. Ritengo, perciò, per esempio, sacrosanto il principio dell’etnomusicologia che la datazione di un canto sia quella del momento della sua registrazione e non la sua presupposta, ipotetica radice in antiche tradizioni popolari. E quanto al meticciato delle culture, che molti lamentano a anzi additano come una sorta d’inquinamento della tradizione, esso c’è dovunque, anche nell’orgogliosa cultura occidentale. E i sovranismi culturali sono le conseguenze di sovranismi – imperialismi – politici, che massacrano la realtà delle combinazioni. La matematica greca non ci sarebbe senza le osservazioni babilonesi ed egiziane. Ma di fatto poi è un’altra cosa. In questo immenso mercato occidentalizzato che è diventato il globo, le “tradizioni” locali – sia vere sia inventate – scendono a patti, dentro e fuori l’occidente propriamente detto. Quanto all’esotismo del passato resterà sempre tale. O credete davvero che noi possiamo leggere l’Iliade come l’ascoltava un greco dell’VIII sec. a.C.? Lo stesso accade con Bach. Illudersi di restituirlo com’era è fingersi che non siano passati più di due secoli. E quand’anche per assurdo ci riuscissimo, c’è una realtà che non possiamo recuperare: l’orecchio di un contemporaneo di Bach. Procediamo per approssimazioni, qualcuna attendibile qualcuna no. Va inoltre distinto il bisogno di capire – sì, capire! – l’arte – passata o presente che sia – dall’uso di trarne il massimo vantaggio o di danaro o di visibilità, spesso di entrambe le cose. E già che si sono tirate in ballo, anche per questo discorso, le lingue, proprio lo studio della storia di una lingua c’insegna quali molteplici flussi di diverse parlate contribuiscano a costruire la realtà di una lingua. Come sempre, la ricerca di una purezza, di un’autenticità, è quanto di meno puro e di meno autentico si possa fare. Leonardo, uccidendo la sorella che scatena la sua libido, s’illude di purificarsi, di trasformare la libido in amore. Ma ha solo ucciso la causa della libido, non già la libido. Forse Adorno – oggi ingiustamente vilipeso – ci aveva azzeccato, quando afferma che niente è meno autentico della ricerca di autenticità. Sono solo schegge di riflessioni, queste. Un sasso nello stagno. Il discorso è molto ma molto più complesso e – posso dirlo? – piaccia o no, è forse un problema irrisolvibile o, peggio, un falso problema, un problema impostato male. Lo stesso problema di sempre: credere che sia possibile riassumere in schemi semplici una realtà complessa. Ci cascano perfino matematici e fisici: guardate quante invenzioni assurde per non ammettere l’indeterminatezza dei quanti! Sempre lo stesso problema: l’homo sapiens – forse più insipiens di quanto si creda – si rifiuta accanitamente di accettare l’indeterminatezza, l’inesplicabilità. l’estraneità del reale, perché si rifiuta di accettarne il fatto di farne parte, di non trovarsene fuori, di non essere un osservatore disinteressato, e che quindi al massimo potrà capire solo quella minima porzione di reale dentro cui sta rinchiuso. Aristotele sostiene che noi non conosciamo il reale, ma solo la nostra rappresentazione del reale – lui credeva che la rappresentazione però lo rispecchiasse – e con un unico strumento, senza il quale, il reale resterebbe per noi inconoscibile: il linguaggio (vi comprendeva anche la matematica). Qui sta il punto: quale arroganza c’impedisce di arrenderci all’evidenza che noi non conosciamo il reale, ma solo ciò che riusciamo a percepirne? La conoscenza è una sorta di hybris. I greci mica avevano torto. Corollario che qualcuno potrà ritenere estraneo alla rappresentazione della tragedia dannunziana. Ma che cos’altro, invece, ci suggerisce D’Annunzio, se non appunto la nostra incapacità, impossibilità di far coincidere le nostre illusioni con la realtà? Che si appoggiasse a Sofocle non è tanto un orpello estetizzante – e se lo fosse, che male c’è? – quanto un ribadire che tale incapacità è connaturata all’impostazione stessa di qualsiasi discorso sul reale, come appunto c’insegnano anche i greci, e che pertanto qualsiasi discorso non oltrepassa le ragioni di un commento, di una chiosa. La verità, non è questione che i sapientes sappiano o possano affrontare.