Teatro dell’Opera di Roma. La Bohème di Giacomo Puccini. Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica dal romanzo Scene della vita di Bohème di Henri Murger. Film-opera di Mario Martone. Trasmesso venerdì 8 aprile 2022 su RAI 3. Disponibile su RaiPlay.
La Bohème di Giacomo Puccini, libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica dal romanzo Scene della vita di Bohème di Henri Murger, andò in scena al Teatro Regio di Torino il 1 febbraio 1896. Tre anni prima, sempre al Teatro Regio di Torino, sempre un 1 febbraio, andò in scena Manon Lescaut, il primo grande successo di Puccini, un’opera che costò molta fatica e molti ripensamenti, soprattutto per la stesura del libretto a cui misero mano in molti – Luigi Illica, Marco Praga, Domenico Oliva , e vi partecipò lo stesso Puccini, ma che alla fine fu pubblicato senza il nome di un autore. All’epoca la drammaturgia di Manon Lescaut fu giudicata incoerente, poco teatrale, sconclusionata, a dimostrazione di quanto spesso i contemporanei non riescano a individuare le ragioni del nuovo, e invece a noi oggi appare modernissima, quasi cinematografica, quattro scene della tragica vita di Manon apparentemente staccate l’una dall’altra, ma che nella successione disegnano i momenti di svolta del degrado sociale dell’infelice giovane, da ragazza di buona famiglia ad amante di uno studente squattrinato, poi mantenuta di un ricco debosciato, prostituta e truffatrice deportata nelle colonie francesi d’America, morta di stenti nel deserto del Nuovo Mondo.
Certo, rispetto alla coerente e ininterrotta vicenda della Manon di Massenet, andata in scena all’Opéra-comique di Parigi il 19 gennaio i884, l’opera di Puccini sembra incoerente, gli atti scollegati l’uno dall’altro. Ma la vicenda acquista un colore sinistro, tragico, che non ha l’opera francese, la quale, tuttavia, disegna un ritratto assai più delicato e pieno di sfumature della ragazza, mettendo in rilievo, più che le crisi psicologiche del personaggio, il suo destino di vittima sociale degli appetiti maschili, che in quanto donna non ha altre risorse se non il sesso per prevalere sulla loro prepotenza. Che è poi la tesi anche di uno straordinario romanzo illuministico francese: Le relazioni pericolose di Chordelos de Laclos. Ma in quei tre anni – dal 1893 al 1896 – il mondo del teatro musicale, anche in Italia, era cambiato.
Appena otto giorni dopo il successo di Manon Lescaut al Teatro Regio di Torino, un’altra opera andò in scena alla Scala di Milano: il Falstaff dell’ormai ottantenne Giuseppe Verdi. Era un’opera assolutamente nuova, che spazzava via le differenze tra il melodramma di tipo italiano e francese costruito su numeri musicali chiusi e il dramma wagneriano di un flusso musicale ininterrotto. Si disse, e si scrisse, già dall’Otello, di sei anni prima, che Verdi aveva ceduto al modello wagneriano. Ma le cose stanno in altro modo. Verdi non rinuncia affatto alla forma musicale chiusa. Cerca, come ha fatto fin dall’inizio della sua carriera di drammaturgo, di costruire una continuità drammaturgica musicale cucendo insieme le forme chiuse senza farne sentire la cesura. Era del resto la lezione dell’ultimo Rossini. Donizetti segue altre vie. Bellini vuole, invece, anch’egli costruire una continuità drammaturgica, ma per vie tutte sue, attenuando le differenze tra declamazione e aria, da una parte estendendo al declamato la cantabilità dell’aria, e dall’altra introducendo nell’aria la forza drammatica della declamazione. Esempio sublime, il duetto finale tra Norma e Pollione, nella Norma. Verdi lo tiene presente per tutta la vita. E mira a reinventare da una parte la grande forma rossiniana, così bene individuata da Dahlhaus nel suo saggio sulla musica dell’Ottocento, una forma che equilibra le necessità stilistiche di una forma musicale chiusa – che però non sia la singola aria – con la sua funzione drammaturgica, e dall’altra a proseguire la via di una declamazione melodica piegata alla situazione drammatica come gli pareva suggerita da Bellini. Il finale del Ballo in maschera già individua e realizza perfettamente questa via. Nel Falstaff il processo giunge al suo compimento. C’erano nel melodramma due forme che si prestavano a questo sviluppo. L’Introduzione, e il Finale. Verdi le coniuga, le mescola, e costruisce l’intera opera come una successione di introduzione e finale ininterrotta. Crea così quello che poi verrà chiamato stile di conversazione. L’opera non si spezza in singoli momenti formali ma si presenta come una successione ininterrotta di conversazione tra i personaggi.
Puccini coglie la novità, e il compimento di una tradizione alla quale nemmeno lui voleva rinunciare. Nasce così La Bohème. Un’opera di perfetta conversazione ininterrotta tra i personaggi, con i suoi momenti lirici che però non spezzano la continuità, sarebbe infatti sbagliato considerarli, come spesso si fa, arie o romanze: sono il momento lirico del dialogo, la sviluppo musicale necessario di ciò che precede e la premessa ugualmente necessaria di ciò che segue. Il dialogo – e non duetto! – tra Rodolfo e Mimì che chiude il primo atto ne è un esempio mirabile. La situazione – i due restano al buio, cercano la chiave, si parlano – non conosce un solo attimo di sosta, e ciò che sembra un arrestarsi dell’azione – non cercano più la chiave – è solo uno svilupparsi del sentimento dei due che si scoprono alla fine innamorati, l’azione dunque si trasferisce dai gesti esterni all’interiorità dei personaggi. Quella sorta di concertato finale che chiude il dialogo, con le voci degli amici fuori scena, è un riportare l’azione interiore al movimento indispensabile dei due innamorati che escono per raggiungere gli amici. La continuità drammaturgica è raggiunta, ma senza soffocare lo slancio lirico dei sentimenti nei momenti in cui il sentimento deve effondersi.
Tutto ciò, questa continuità musicale dell’azione, è manna per un regista. Tanto più per un regista che voglia trarne un film. Mario Martone conclude, per il Teatro dell’Opera di Roma, con questa bellissima Bohème, trasmessa venerdì scorso da RAI 3, il percorso iniziato con Il Barbiere di Siviglia e proseguito con la Traviata, creando una trilogia teatrale e cinematografica di straordinario interesse. Perché non fa teatro, solo teatro, ma nemmeno cinema, solo cinema. E tanto meno mette in scena un melodramma, anzi sarebbe, nel caso della Bohème, di dire dramma musicale, opera, e non melodramma. Fa qualcosa di assai più complesso: fa tutte queste tre cose insieme: mette in scena un dramma musicale, fa teatro e facendo teatro fa un film, un film che è la rappresentazione di come si mette in scena un dramma musicale senza fare vero e proprio teatro, ma in realtà poi costruendo un’azione teatrale al quadrato, che è anche un film che mostra come si fa un film che non è cinema, ma è teatro che si fa cinema. Martone, come aveva già fatto con Il barbiere di Siviglia e la Traviata, non si propone di fare un film dell’opera, trasferendo pari pari l’azione che si sarebbe vista a teatro in un’azione cinematografica, mantenendo cioè l’illusione di assistere a una vicenda, come in un vero film, con la differenza che i personaggi, invece di parlare, cantano. No, l’origine teatrale-musicale dell’azione non è mai trascurata, è anzi esibita. Il film, così, appare come una riflessione su come si fa o si può fare oggi un film d’opera. E per di più proprio il soggetto della Bohème, un gruppo di giovani che credono di poter cambiare il mondo, si presta a una nostalgica rievocazione della nouvelle vague francese, l’insegna del Café Flore, nel quartiere Latino, frequentato, tra gli altri intellettuali del periodo, anche da Sartre, a un certo punto appare, fuggevolmente, dove ci aspetterebbe il Café Momus. Questa rievocazione di una certa Francia conferisce al film un tono di perpetua e nostalgica tristezza, di malinconia che l’allegria e lo slancio vitale giovanile non riescono a reprimere. Ma del resto non è tipica proprio dei giovani più fantasiosi e visionari una profonda malinconia, un desiderio della morte, e la sua paura, un senso smodato di solitudine e d’inadeguatezza? Chi sa che sia questo il senso profondo della Bohème di Puccini. Le riprese sono girate nei Laboratori di Scenografia del Teatro dell’Opera di Roma, in via dei Cerchi: un edificio di archeologia industriale, tra officine per scenografi-pittori, depositi immensi di costumi e attrezzeria scenica e una falegnameria. Negli esterni si vedono le rovine del Circo Massimo e del Palatino. L’orchestra s’inserisce più volte nella rappresentazione, inquadrata nello spazio immenso del laboratorio. Il direttore, Michele Mariotti, è più volte inquadrato, nei momenti di più intima concertazione strumentale, in primi piani che mettono in evidenza la realtà di un’esecuzione musicale e non di una finzione realistica che racconti una vicenda.
Niente è realistico, gli ambienti non sono quelli del libretto, ma è il laboratorio, i vari spazi del laboratorio, le sue terrazze. E tuttavia, il realismo cacciato via dalla porta, rientra dalla finestra dei primi pieni dei volti dei personaggi o meglio degli interpreti. Rare volte si sono visti un Rodolfo così verosimile, una Musetta così accattivante, una Mimì così credibile, Federica Lombardi, nonostante il fisico denunciasse uno stato di ottima salute, e non una malata di tisi. Avrebbe potuto essere una contraddizione in una rappresentazione che avesse voluto presentarsi come realistica, è invece un elemento in più di intensità emotiva proprio perché non è abolita la differenza tra interprete e personaggio, ma è anzi esibita. È l’interpretazione che restituisce il personaggio, non la sua verosimiglianza visiva. Sono, anzi, proprio i primi piani dei volti degli interpreti a condurci nell’evoluzione dei sentimenti che muovono le azioni dei personaggi.
Indimenticabile il volto di Mimì che nel terzo atto ascolta il colloquio tra Rodolfo e Marcello, dal quale apprende sì che Rodolfo la ama, ma anche di essere condannata dalla malattia. Gli interpreti vanno lodati tutti. Qualcuno, come il Rodolfo del tenore cileno Rodolfo Tetelman ha l’efficacia di un fisico adattissimo al ruolo, di un bel giovane dall’aspetto ingenuo, ma in realtà introverso, complicato. Ma gli altri non sono da meno, il Marcello di Davide Luciano e la Musetta di Valentina Nafornita, moldava, Schaunard è Roberto Lorenzi, Colline è Giorgi Manoshvili. Impagabile Benoit, Armando Ariostini. E musicalmente? All’effetto visivo corrisponde quello musicale.
Straordinaria l’omogeneità del cast. Nessuno fuori tono o sopra le righe. Segno di un lungo lavoro di preparazione. E Michele Mariotti tiene insieme le complesse fila dell’interpretazione su un piano di perfetto adeguamento di ciascuno all’insieme. Un film da vedere e da rivedere, che è insieme una splendida interpretazione dell’opera e una lezione di come oggi una rappresentazione che non sia anche riflessione sulla rappresentazione appaia inadeguata, poco credibile, per quanti sforzi si facciano, magari anche polemicamente, programmaticamente, quasi come un’utopia di una fedeltà inesistente o impossibile, di rispettare, come da alcune parti vanamente si continua a dire e a proclamare, le prescrizioni del libretto e della partitura. Che non è vero, perché l’arte del teatro – e del cinema – muta assai più rapidamente di quanto l’ingenuo spettatore o teatrante, fiduciosi nella verisimiglianza delle convenzioni teatrali, possano immaginare. Altrimenti dovremmo rappresentare Shakespeare affidando ad attori uomini anche le parti femminili, rialzare l’rchestra al livello del palcoscenico per l’opera prima della riforma wagneriana, in Italia almeno fino al primo novecento, e riportarla sulla scene per le rappresentazioni rinascimentali e del primo Seicento.
Rileggersi, per convincersene, le pagine, può darsi definitive, che Carl Dahlhaus, nel saggio I drammi musicali di Richard Wagner (Marsilio, purtroppo esaurito, si può però leggere l’edizione originale tedesca oppure la sua traduzione inglese), dedica alle messe in scena dei drammi wagneriani.