In memoriam per la memoria di un oggi possibile

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Accademia Ackermann di Giancarlo Sepe andò in scena a Spoleto nel 1978. Quell’anno il festival s’inaugurò con la Cenerentola di Rossini. Alla quale seguirono il Falstaff di Verdi e il Così fan tutte di Mozart. E due opere in un atto di Menotti: La bugia di Martin e L’uovo. Il teatro parlato – detesto l’espressione “di prosa”, perché allora tutto il teatro antico greco-romano, Shakespeare, Racine, Lope de Vega, Calderón de la Barca, Alfieri e molte commedie di Goldoni non ne farebbero parte, perché sono copioni scritti in versi) – il teatro parlato vide La duchessa di Amalfi di Webster tradotta da Giorgio Manganelli e messa in scena da Mario Missiroli. Per la musica contemporanea ci fu un concerto diretto da Donato Renzetti con musiche di Castiglioni, Gorli, Sciarrino, Donatoni e Berio.

Ripensavo a tutto questo, mentre mi recavo al Teatro La Comunità di Roma, in Trastevere, il teatro fondato da Giancarlo Sepe, a vedere il suo Femininum Maskulinum. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro della Toscana, è andato in scena a Roma il 3 aprile, poi a Firenze, dal 23 al 28 aprile e ora è tornato a Roma, e ci resta fino al 19 gennaio prossimo. Dopo quasi mezzo secolo Giancarlo Sepe torna alle sue ossessioni, ma non per narcisismo, bensì per dirci: badate, sono anche le vostre. Come se tutto ritornasse. Vero che nella storia niente si ripete così com’è stato la prima volta, le camicie con la croce uncinata in Germania, le camicie nere in Italia, non tornano, ma torna la voglia di zittire il dissidente, di calpestare chi non si adegua, di banalizzare la storia, ridurla a cencio insignificante proprio perché vorrebbe essere invece la bandiera esaltante del presente. Ma, soprattutto, Sepe resta, per nostra fortuna, ossessionato dal teatro che deve essere teatro. Musica, danza, recitazione, quadro vivente, azione singola e di gruppo, sono gli strumenti di un’azione che non lascia respiro, perché sempre accade qualcosa, già all’inizio, quando due corpi completamente nudi, di un giovane e di una giovane, di un bellissimo giovane e di una bellissima giovane, stanno sdraiati sul proscenio, i piedi che si toccano, e quando si alzano, si sfiorano le mani, i visi. Escono, entrano altre figure, si dovrebbe dire altri corpi, in latino la maschera, il personaggio, si chiama persona, Ingmar Bergman ci costruì sopra un film, e questi corpi, queste persone, queste maschere – le maschere nude di Pirandello? – questi personaggi, questi attori, anch’essi si svestono e si vestono, s’incontrano, si scontrano, e si abbracciano, si amano. Tutto mentre la musica continua, e agire sulla scena è in realtà danzare anche se non c’è un solo passo di danza, e quando poi invece la danza viene, allora è come se il quadro si placasse, il gruppo si integrasse, la danza unisse i corpi, allacciasse le menti – anche quelle del pubblico. Canzoni, ma anche musica “dotta”, un’epoca che si manifesta con la musica.

La storia è scritta da donne e uomini, artefici e vittime di loro stessi. Il 30 gennaio del 1933 Hitler sale al potere e tutto quello sognato e sperato nella Repubblica di Weimar: le promesse, le libertà culturali, politiche, sessuali, quelle di genere, sono cancellate“, si legge sul sito del teatro. Ma un personaggio centrale c’è, ed è Thomas Mann , premio Nobel nel 1929, impersonato da Pino Tufillaro. L’ambiguità sessuale (che era anche dello scrittore tedesco) è fino a un certo punto anche ambiguità politica, come se, da distaccato conservatore – ha scritto un saggio sul distacco dell’intellettuale dalla politica – Thomas Mann si rifiutasse di capire ciò che stava avvenendo. I figli no, lo capirono subito: Erika, Klaus, apertamente omosessuali e che rifiutano il nazismo, lo sbeffeggiano, dapprima a Berlino, nel cabaret Pfeffermühle, il macinapepe, e poi a Parigi, in Inghilterra e infine negli USA. Klaus si uccide. Golo Mann restò nella Repubblica Democratica Tedesca, a insegnare storia. Sepe fa incontrare Thomas Mann e Hitler: l’incomprensione è totale. Così come l’incontro immaginario con Al Capone. Ma non immaginario il connubio di economia e fascismo, economia e criminalità organizzata, ieri come oggi. Anche Thomas Mann sceglie alla fine la via dell’esilio, dapprima in Olanda, poi negli Usa e infine a Zurigo, dove muore nel 1955.

Gli altri attori, tutti bravissimi, sono, in ordine alfabetico, Sonia Bertin, Alberto Brichetto, Lorenzo Cencetti, Chiara Felici, Alessia Filiberti, Francesco Lanzanova, Ariela La Stella, Aurelio Mandraffino, Giovanni Pio Antonio Marra, Riccardo Pieretti, Federica Stefanelli. Questi attori interpretano ciascuno diversi ruoli. E lo scambio di personaggi, il rincorrersi, incontrarsi, separarsi, dall’inizio alla fine, sono la vera e propria azione di tutto lo spettacolo. Le musiche sono scelte e assemblate da Davide Mastrogiovanni, e sono non già una colonna sonora, ma una vera e propria partitura teatrale, una musica che inventa, fa teatro, e che pertanto scansiona i movimenti degli attori. Javier delle Monache cura il disegno delle luci, e fanno anch’esse parte dell’azione, del movimento delle figure, lo esaltano, lo nascondono, lo rivelano. I costumi di Lucia Mariani fanno da sé l’epoca dell’azione, anche gli indumenti intimi, le mutandine femminili, i costumi da bagno maschili. Ciò che cattura lo spettatore, ciò che lo intriga, lo affascina, è proprio l’unità della concezione, perché non c’è un aspetto che prevarichi l’altro, la recitazione i gesti, la musica la comprensione di ciò ch’è detto e di ciò che accade, ma ogni elemento è funzione dell’altro. Teatro totale, Gesamtkustwerk direbbe Wagner, al quale uno spettacolo del genere sarebbe piaciuto. Perché in fondo la Germania, che qui cade, precipita nell’abisso, è l’Europa, il malato di una malattia europea, il detonatore di quanto accade nel resto di Europa. E come in Germania spunta il maleficio che condanna un popolo, in Germania tuttavia c’è anche il contravveleno, il rifiuto, la rivolta. Proprio quella libertà di parola, di pensiero, di arte, di sesso che il nazismo reprime esplode, infatti, come rivolta alla repressione, all’ottusità dell’omologazione.

Questa non vuole essere una recensione – lo spettacolo è di dieci mesi fa! arriverebbe in ritardo– ma il tentativo di una riflessione su ciò che avviene sulla scena: perché il punto è proprio questo, che in ogni attimo avviene qualcosa. E allora la prima idea che viene in mente è: accidenti, ma questo era il teatro a Roma, in Italia, negli anni 60/70 del secolo scorso. E di nuovo accidenti: com’è attuale. Non solo per ciò che vuole suggerire, ma per come è fatto il suggerimento: tutto funziona come in un orologio, tutto si tiene, ritmo, azione, successione degli episodi, e tutto come un unico avvenimento, un’unica folgorante visione, perché poi tutto sembra appunto giocato sull’immagine, i singoli, l’insieme, sono immagini che si srotolano davanti agli occhi. Il pamnphelt politico, se un pamphet si vuole leggere, non sono le parole che si ascoltano, ma l’azione che si vede. Qualcuno troverà difficile orientarsi: ma che vuol dire tutto questo agitarsi, chi è questi, chi è quegli? Ma si rifletta: in quegli stessi anni Satura di Montale era una scritturapiù esplicita? O l’intensità del messaggio era data anche dalla sua concentrazione, dal suo, diciamo così, tenersi nell’oscuro, nell’enigma, e la soluzione dell’indovinello stava nell’intera scrittura – anche il teatro è scrittura, ma il suo alfabeto non sono le parole, bensì l’insieme di parole e di gesti, per così dire l’azione stessa di ciò che parla, si agita sulla scena – proprio come accade nell’intero “mottetto” di Montale, che nel 1971 non lo chiama più mottetto, ma, alludendo al deridente Lucilio, il quale appunto scriveva saturae, in cui staffilava la società romana, ma mescolavano anche tutti i generi letterari, qui si accusa un’assenza, si scaglia un avvertimento: l’assenza di reazione al mostro che occupa la società, l’avvertimento che non allentate la guardia, il mostro torna, in altro modo, senza svastiche e senza manganelli, ma torna, per ripetere ciò che è accaduto, e tutti noi da un giorno all’altro diventiamo le vittime, gli schiavi, di questo fascismo senza simboli fascisti, o nel meno peggio dei modi, veniamo omologati a un potere, o, può darsi, piuttosto, a un consenso generale, democratico, che ci toglie il pensiero – e la libertà. Ricordate Cleone. L’esperimento più radicale della democrazia ateniese, diventata però un’oclocrazia, una tirannide della massa, è la stessa che stermina i maschi della ribelle isola di Melo (oggi Milo) e ne deporta le donne, la stessa che condanna a morte Socrate perché insegna ai giovani come si pensa, come si organizza consapevolmente la propria vita, ma il potere decide che Socrate corrompe i giovani, e lo condanna a bere la cicuta.

- 08/01/2025
TAGS: teatro

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