Illumination
Early Jewish-Italian Spiritual Music
Ensemble Bet Hagat
Traditional Singing Yair Harel
Daniel Akiva, Mauro Occhionero
Artistic Director Ayela Seidelman
stradivarius STR 37124 1 cd
“Il delicato e fragile equilibrio, proprio della cultura ebraica, tra integrazione e difesa della propria singolarità, fra tradizione e innovazione, tra la fedeltà a un principio e la flessibilità di fronte alla realtà si rivela in tutta la sua drammaticità anche nel campo della musica” (Enrico Fubini, La musica nella tradizione ebraica, Torino, Einaudi, 1994, pagg. 53-54).
La rottura con gli “altri” avviene nel 70 d. C., quando le truppe romane di Tito, futuro imperatore, conquistano Gerusalemme e distruggono il Tempio. E, a dire il vero, non fu rottura voluta, ma subìta. Furono gli altri – in questo caso i Romani – a imporla, e proibirono, inoltre, primo potere politico nella storia, che gli Ebrei ricostituissero un proprio Stato. Da allora cominciò la diaspora, chi a Est, chi a Ovest, chi a Roma. Nel Medio Evo, a Est, Ashkenaziti, a Ovest, Sefarditi. Ma già dal primo secolo la comunità ebraica di Roma è la più antica comunità ebraica fuori d’Israele. Venezia detiene invece un altro primato: quello di avere costruito il primo ghetto del mondo. Ufficialmente, fu costruito per difendere gli ebrei dagli assalti dei cristiani, frequentissimi – di qualsiasi calamità venivano accusati gli ebrei – di fatto, fu costruito per isolarli. Questo per chiarire il concetto che gli italiani non sarebbero razzisti. L’isolamento, tuttavia, non impedì, naturalmente, i contatti. E ci furono anzi momenti di fecondissimi scambi, tanto nel mondo cristiano, quanto, ancora di più, nel mondo islamico, a Bagdad, a Cordoba. L’idea di un’integrazione e, anzi, di un’assimilazione, comincia nel Rinascimento e diventerà addirittura dominante dall’Illuminismo in poi. Ma torniamo alla musica.
Queste righe non vogliono essere un saggio di storia ebraica e della musica ebraica in Occidente, non ne avrei la competenza, bensì solo una riflessione sui rapporti tra musica ebraica e musica europea, prendendo a pretesto una recente e bellissima incisione della casa discografica stradivarius, Illumination, Early Jewish-Italian Spiritual Music. Alle origini il legame tra canto ebraico e canto cristiano è strettissimo. Il canto cristiano nasce dal canto sinagogale. E come il canto sinagogale è rigorosamente monodico. Ma nel corso del Medio Evo il canto cristiano d’Occidente conosce un’evoluzione che lo condurrà a scoprire e organizzare, dal XII secolo, la polifonia, vale a dire la sovrapposizione simultanea di più melodie. Salomone Rossi alla corte di Mantova, nella seconda metà del Cinquecento, tenta d’introdurre la polifonia anche nel canto sinagogale, rigidamente ma fantasiosamente monodico. Ma è parentesi breve. E il canto della sinagoga ritorna, nel secolo seguente, alla monodia.
Nel Settecento, però, a Venezia, Benedetto Marcello s’interessa ai canti della sinagoga, e alcune melodie sono da lui assunte come cantus firmus dei suoi Salmi polifonici (c’è un’incisione pubblicata da Concerto, interprete l’Ensemble Salomone Rossi). Fine degli scambi. I compositori ebrei che verranno dopo, alcuni grandissimi come Mendelssohn, Alkan, Meyerbeer, Offenbach, Halévy, Mahler, Bloch, sono di fatto compositori inseriti nella tradizione musicale europea, o tedesca o francese. E anche quando assumono melodie ebraiche, le innestano dentro una costruzione che non è ebraica. Il che non significa che manchi nella loro musica un carattere ebraico, ma andrà cercato altrove, non in elementi e funzioni strettamente musicali.
Questo bellissimo cd stradivarius copre solo il periodo che va dal tardo Rinascimento di Salomone Rossi al primo Settecento di Benedetto Marcello. Aprono e chiudono la rassegna, a mo’ di prologo e di epilogo, due composizioni di Salomone Rossi. In mezzo undici canti ebraici, monodici. Uno più struggente dell’altro, anche quelli danzanti. Che sia proprio lo struggimento, la nostalgia, il dolore di una perdita, il carattere della melodia ebraica?
Comincia la rassegna, dopo il prologo di Salomone Rossi, un canto della sinagoga romana. Poi si va a Trieste con un canto sefardita. C’è una melodia fiorentina (italyani) di delicato garbo. Poi di nuovo un canto sefardita di Trieste. Ed ecco una trascrizione di Benedetto Marcello (al solito, mentre il “popolo” diffida degli ebrei, perché li crede causa di malanni, l’aristocratico ne è invece incuriosito: e non sarà un ricorso storico che l’avversione per l’altro, per il diverso, nasca quasi sempre dagli strati popolari? La piccola borghesia francese ritratta da Céline è ferocemente antisemita). Si va a Ferrara con un altro canto “italyani”. Poi di nuovo una melodia sefardita rielaborata da Marcello. E si viene un’altra volta a Roma (Bnei Romy). Si ritorna a Firenze e si chiude con la Fiera dell’Est di Angelo Branduardi (che forse c’entra poco), prima dell’epilogo di Salomone Rossi.
Di una catturante espressibilità i cantori dell’Ensemble Ben Hagat. Ci si lasci catturare. Melodie bellissime, ma non ammiccanti, né addomesticate da arrangiamenti che le facciano simili a tante colonne sonore orecchiabili, come oggi va di moda. La monodia non è una melodia facilmente apprendibile, segue l’andamento del testo o della danza, quando è incarnata da una danza. Ma il suo movimento è modale, non tonale. Vale a dire che non ci si deve aspettare una conclusione secca, un percorso riconoscibile da un inizio fino alla cadenza finale. Il modo ha altre regole. Ruota intorno a un perno e si affida e melopee che sembrano non finire. Ci si abbandoni a queste melopee. Si scoprirà che la musica, oltre a essere costruzione, architettura, come ci ha abituati prima la polifonia, poi l’armonia tonale, può avere un andamento che assomiglia all’improvvisazione – guarda caso come nella musica popolare o delle culture extraeuropee – e conta pertanto non la logica del suo percorso, bensì la durata del suo scorrere. E’ una riflessione quasi metafisica sul tempo, ma non nel senso d’imbrigliarlo, di catturarlo, schedarlo, chiuderlo in uno spazio definito, conchiuso, bensì nel senso dell’abbandonarsi al suo ritmo imprevedibile – anche quando è il ritmo di una danza – alla sua continuità non delimitabile, alla sua sostanziale – nel senso di essenza, di natura specifica – inafferrabilità.
L’epilogo polifonico di Salomone Rossi ecco che di nuovo lo racchiude in misure razionali, in spazi riconoscibili. E tuttavia l’esperienza di quella interminata continuità, di quell’inafferrabile procedere, è una più profonda percezione del tempo, della sua non scavalcabile inesistenza oggettiva, racchiusa com’è la nostra percezione del tempo solo nella sensazione indefinita e indefinibile di un fluire che non ha inizio né fine ma solo durata, incommensurabile durata. Aristotele sostiene che il Tempo, come lo Spazio, non esistono: sono solo la misura del movimento dei corpi. Non esistessero corpi che si muovono – anche la crescita di una pianta è un movimento –non percepiremmo né lo Spazio né il Tempo. Newton lo smentisce e sostiene che il tempo è una realtà oggettiva. Altrimenti crollerebbe la necessità delle leggi fisiche. Ma poi arriva Einstein e le cose si complicano. Arriva infine la teoria dei quanti. Arrivano le neuroscienze. E chi sa, viene da pensare che Aristotele ci avesse azzeccato. Rileggere oggi la sua Fisica è quasi come tuffarsi in una teoria della Natura che perpetuamente si trasforma. O come ascoltare queste monodie sinagogali che ci fanno pensare allo Zohar.