Dieci anni fa con Il cavaliere oscuro il mondo dei cinecomics non è stato più lo stesso. Nonostante il trascorrere del tempo, il secondo capitolo della trilogia del Batman di Christopher Nolan rimane irraggiungibile. (Ri)scopriamolo insieme in occasione del decimo anniversario dall’uscita nelle sale cinematografiche
A Gotham City la criminalità è sempre più in difficoltà: Batman (Christian Bale) insieme al tenente Gordon (Gary Oldman) e al nuovo procuratore distrettuale Harvey Dent (Aaron Eckhart) ha dichiarato guerra totale al crimine. Ma la comparsa di uno strano e pericoloso individuo conosciuto come Joker (Heath Ledger), mette a dura prova l’alleanza dei tre. Il misterioso “clown” cerca in tutti i modi di far sprofondare la città nel più totale incubo, sfidando costantemente Batman con un unico scopo: fargli infrangere ogni regola e, così, trasformarsi in un giustiziere.
In primis fu Tim Burton con Batman e Batman – Il ritorno a imporre il cambio di rotta nei cinecomics di allora, dando vita a due capolavori gotici e fedeli alle tavole di Bob Kane e Bill Finger. Ma un mancato terzo episodio burtoniano e il passaggio della regia a Joel Schumacher non solo ha permesso la nascita di due orribili guazzabugli kitsch (Batman Forever e Batman & Robin), parimenti tale scelta è costata l’affondo di un ottimo franchise incentrato sul crociato mascherato di Gotham. Fortunatamente, a far uscire dal dimenticatoio una figura portante della cultura pop ci ha pensato nel 2005 Christopher Nolan con Batman Begins, piccolo gioiello filmico che, oltre ad aver (ri)scritto in chiave realista, adulta, violenta, cupa e contemporanea le origini di un’icona, ha fatto da apripista a una immensa trilogia, continuata esattamente dieci anni fa con Il cavaliere oscuro (The Dark Knight, 2008) e terminata nel 2012 con Il cavaliere oscuro – Il ritorno.
Sequel all’altezza del primo episodio ma nettamente superiore, Il cavaliere oscuro amplia quelle che erano le coordinate di partenza di Batman Begins: Nolan ripropone il perfetto impianto psicologico che caratterizza il predecessore, approfondendolo ulteriormente e offrendo molte più sfaccettature. Batman non si muove più da solo, al suo fianco ha il già ben conosciuto Gordon e il nuovo alleato Dent, procuratore dal pugno duro e incorruttibile. È un trio di eroi quello posto da Nolan al centro di Il cavaliere oscuro, tre uomini che portano avanti una personale e intima crociata contro il crimine che, tuttavia, crolla inesorabilmente con l’entrata in scena del Joker, villain anarchico e machiavellico come pochi. Non a caso è proprio l’introduzione di uno degli storici antagonisti di Batman che permette a Il cavaliere oscuro di plasmare la sua stessa forma filmica: il Joker del compianto Heath Ledger è una figura messianica, armata di coltelli e ingegno, che funge da spartiacque nel rendez-vous di psicologie e istinti, in quel punto di incontro dove finisce il bene e inizia il male.
Capolavoro inarrivabile e sublime Il cavaliere oscuro è l’egregia rappresentazione del dualismo deleuziano, qui codificato attraverso molteplici punti di vista: non solo Batman si ritrova a dover affrontare un nemico folle e imprevedibile ma, allo stesso tempo, deve lottare contro i suoi stessi vendicativi demoni interiori che lo spingono sempre più verso quel flebile confine che separa legalità ed illegalità. Ancor prima della guerra urbana tra i grattacieli e sulle strade di Gotham City, lo scontro tra Batman e Joker è un duello psichico: se Batman Begins, come già affermato, è il ritratto psicologico di un uomo/eroe, Il cavaliere oscuro, invece, è la totale mise en scène di anti(eroi) borderline e in rotta di collisione dopo aver smarrito il senso di differenziazione tra giusto e ingiusto perché, in fondo, come afferma lo stesso Harvey Dent in una frase tanto anticipatoria quanto apocalittica «o muori da eroe, o vivi tanto a lungo da diventare il cattivo». Non ci sono veri eroi in Il cavaliere oscuro e, forse, neanche veri cattivi e ciò lo si evince dallo stesso Joker che, con piglio antropologico e perizia sociologica, dimostra come chiunque sia capace di sporcarsi le mani pur di sopravvivere nella lotta della selezione naturale, consegnando così il disperato e nichilista messaggio che il bene rimane pur sempre a un soffio di distanza dal male.