Riscontro, mi sembra, un dato strutturale della cultura degli italiani che penetra anche gli angoli più nascosti del comportamento. È il bisogno, spesso irresistibile, di giudicare ciò con cui ci si confronta. Giudicarlo, già prima di conoscerlo. Anzi, spesso, il giudizio pre-giudica lo stesso processo della conoscenza. Del resto, la nostra letteratura comincia con un poema – sublime! – che giudica l’intera umanità, ma prima di tutto i contemporanei stessi del poeta. Quindi, sia detto per chiarirci, in sé, questo atteggiamento giudicante rispetto a tutto ciò con cui si viene a contatto, non è né un dato negativo né un dato positivo. Bensì, una componente strutturale della cultura comune. Tuttavia, come per ogni atteggiamento relazionale, può indurre a equivoci, errori, o addirittura a misfatti. Alla base di questo atteggiamento c’è un sentire la differenza come differenza di valore. Il diverso da ciò che si crede norma diventa così necessariamente o di valore inferiore o addirittura sbagliato. Non è questo lo spazio per approfondire i campi in cui un simile atteggiamento induca a errori di valutazione, a giudizi affrettati, a sbrigative liquidazioni. Ma c’è un settore in cui esso è particolarmente visibile, e spesso pericolosamente fuorviante: la musica. Nei confronti della musica tale atteggiamento, nelle sue manifestazioni radicali, manifesta due opposte posizioni di giudizio, egualmente liquidatori. Chi pratica o anche semplicemente predilige la musica cosiddetta “classica” storce il naso davanti a qualsiasi altra esperienza musicale, sia musica popolare, o d’intrattenimento, canzone d’autore, o musica pop, (che non è la musica popolare), ecc. Magari ha l’accondiscendenza di “accettare” il jazz, purché lo si confini in uno spazio che non è quello di Beethoven e di Verdi. Dall’altra parte, specularmente, gli appassionati o anche i semplici ascoltatori della musica che non è “classica”, forti del fatto che è anche la musica oggi più conosciuta e diffusa, confinano la musica “classica” in una nicchia o in un limbo di sopravvissuti alla fine dei privilegi di classe. In queste posizioni estreme la forza del giudizio prevale sulla conoscenza dei fatti. I fatti, invece, ci dicono un’altra cosa. Che non esiste un solo tipo di musica e che le musiche non hanno tutte le stesse funzioni. In margine, è interessante osservare che anche all’interno dei fruitori di musica non classica si alzano steccati, per esempio si guarda con sufficienza la musica cosiddetta “commerciale”, di consumo, o quella che negli USA si chiama Musak. Ora, anche questo è un atteggiamento snobistico, impropriamente giudicante. La musica commerciale svolge anch’essa una sua funzione e per la funzione che svolge è costruita come si deve. Anzi, dirò di più: è sempre esistita. Nino Pirrotta, in un bellissimo saggio sulla musica medievale, scrive che sarebbe un errore pensare che la musica allora praticata fosse solo quella che ci è arrivata scritta. Quella scritta, anzi, è solo la punta di un iceberg, la musica della classe colta, degli “intellettuali”. Tutta l’altra si cantava e si suonava senza che ne restasse una traccia scritta. Attenti, dunque, a immaginare che la musica scritta sia tutta la musica che esiste. E non solo per quanto riguarda il Medioevo. Mozart e Beethoven erano grandi improvvisatori. Non ce n’è rimasto niente di queste loro improvvisazioni, salvo ciò di cui hanno voluto lasciare un segno nelle loro composizioni, per esempio l’attacco del Quinto Concerto per pianoforte o della Sonata op. 109 di Beethoven., le cadenze dei Concerti per pianoforte o la Fantasia in re minore di Mozart. Inoltre nelle serate dei palazzi aristocratici del Settecento si danzava e mentre si mangiava c’erano musicisti che intrattenevano i banchettanti. Mozart ce ne dà un esempio nei due finali d’atto del Don Giovanni. Ma sia Mozart, sia Beethoven hanno scritto minuetti, valzer, danze tedesche. Tornando al discorso del giudizio, è indubbio che queste musiche siano assai differenti tra loro e svolgano anche funzioni differenti. Ma questa loro differenza non deve implicare un giudizio di valore,estetico. Nel proprio ambito, ciascuna di queste musiche ha il valore estetico che deve avere. Anzi, proprio la coesistenza di musiche così diverse e di così differenti funzioni è un segno della vitalità di una cultura musicale. E, come all’interno della musica “popolare” esistono diversi gradi di elaborazione, lo stesso accade anche nell’ambito della musica “classica”. Ovvio, per altro, che il grado di elaborazione, nell’uno e nell’altro campo, susciti consensi di diversa consistenza. Criticare una composizione “classica” perché di “nicchia”, perché troppo sperimentale, e pertanto inappetibile per i più, sarebbe come criticare Mallarmé di avere scritto poesie incomprensibili ai più. Tra l’altro non è vero che i campi siano incomunicabili. La ricerca “colta” di una musica che travalicasse i confini della tonalità, negli anni 60-90 del secolo scorso, si ripercosse anche nella musica d’intrattenimento e perfino in quella commerciale: i più giovani non possono ricordarlo, ma le canzoni di quegli anni spesso non chiudevano con una cadenza, ma sfumavano il suono via via fino ad estinguerlo. Era come se anche la musica commerciale sentisse un certo imbarazzo a definire distintamente un campo tonale. Per non parlare delle colonne sonore dei film gialli, che facevano spesso ricorso a musica seriale o comunque sperimentale o dai suoni inusitati. Si pensi, che so, a Psycho, di Hitchkock. La conclusione, provvisoria, che se ne può trarre, è che, anche nella musica, il Novecento offre un ventaglio assai ampio di soluzioni formali. E che questa ampiezza sembra proseguire anche in questi primi decenni del nuovo secolo. Con un rischio: che questa varietà la si percepisca come un difetto, invece che come segno di ricchezza inventiva. Come se anche per la musica il secolo anelasse a una omologazione generale, al soffocamento delle differenze. In politica se ne riscontrano effetti devastanti. Ma proprio per questo la musica, la poesia, il cinema, l’arte, insomma, hanno un compito eccezionale: salvaguardare la ricchezza delle differenze. Mai troppe, e mai troppo differenti.