Copenaghen, 2020. Durante un intervento di routine, l’ufficiale di polizia Christian Toft (Nikolaj Coster-Waldau) assiste al letale ferimento del partner di lavoro Lars Hansen (Søren Malling) per mano di Ezra Tarzi (Eriq Ebouaney), un sospettato di omicidio fermato dai due. Durante l’inseguimento, terminato con una rovinosa caduta da un tetto, Ezra viene rapito da alcuni uomini. Distrutto dal dolore e dai sensi di colpa per aver dimenticato a casa la propria arma di servizio e, così, non essere riuscito a difendere Lars, Christian dà vita a un’indagine privata grazie anche all’aiuto della collega Alex (Carice van Houten), quest’ultima amante di Lars per anni. I due, ben presto, scoprono che Tarzi è una cellula dell’ISIS ma, al tempo stesso, lavora per un team della CIA capeggiato dall’agente Joe Martin (Guy Pearce). Desideroso di vendetta Christian, insieme ad Alex, si butta nella ricerca di Tarzi in modo da ottenere giustizia.
Si sa, ogni qualsivoglia produzione cinematografica presenta i suoi pro e i suoi contro in relazione alla buona o pessima riuscita di un progetto. Può capitare, difatti, che tra conflitti sul set, discrepanze nella troupe e rigidi ordini da chi, in definitiva, investe il proprio denaro un film si areni nel limbo della mancata realizzazione oppure, nel migliore dei casi, che riesca a vedere il buio delle sale cinematografiche tuttavia pesantemente diverso da come è stato concepito in precedenza. Ultimo, eclatante caso è quello di Domino (2019), film che, nonostante tutte le difficoltà del caso, ha segnato il ritorno alla regia di un Maestro e veterano come Brian De Palma.
Trentesimo lungometraggio del regista di capolavori come Vestito per uccidere, Blow Out e Omicidio a luci rosse, Domino inizia come un semplice poliziesco ma, lentamente e scena dopo scena, vira verso i lidi del thriller (genere tanto amato dal Nostro), della spy story e – perché no? – del revenge movie senza intaccare, minimamente, il plot. Certo, mescolare genere e sottogeneri, a volte, può essere un rischio ma, nelle esperte mani di De Palma, tale amalgama funziona notevolmente dando vita, così, a un intrigo internazionale nel cuore dell’Europa. E il parallelismo con l’omonima pietra miliare di Alfred Hitchcock, qui, non è utilizzato a caso poiché Domino è, a tutti gli effetti, una mise en scène di doppi giochi, timori e paranoie. Prendendo spunto dalla sempre più attuale lotta al terrorismo De Palma, insieme allo screenwriter Petter Skavlan, pone, al centro delle vicende, il famigerato ISIS, il gruppo terroristico più pericoloso al mondo nato durante i moti della Primavera Araba. Ma, al contempo, l’autore non lesina a criticare, aspramente, gli Stati Uniti “difensori” dell’ordine globale capaci di ottenere i risultati anche mediante l’utilizzo della tortura e di metodi poco puliti (e i richiami mnemonici a Guantanamo e Abu Ghraib sono inevitabili).
Procedendo per addizione senza mai essere ridondante, Domino interconnette tra di essi ogni singolo tessuto di cui è formata la sua stessa struttura e filmica e narratologica, mettendo in scena non solo la sete di vendetta del poliziotto Christian ma, parimenti, una caccia all’uomo senza sosta tra Danimarca e Spagna e che, minuto dopo minuto, accumula un crescendo di tensione e scoppi di bieca violenza fino al risolutivo e, inaspettato, finale. Tra serrate composizioni registiche e almeno due sequenze da antonomasia (di cui una interamente al ralenti) Brian De Palma non solo approfondisce, in maniera asciutta e priva di retorica, l’oramai sempiterno affaire su terrorismo e interessi geopolitici bensì, interfacciandosi con i “nuovi media” quali YouTube, lo streaming video e i device quotidiani come smartphone e tablet mostra quella “morte in diretta” che, giorno per giorno, invade ogni spazio televisivo e del web, offrendosi come carne fresca a quel voyeurismo 3.0 figlio del XXI secolo e insito, anche se in maniera tacita e occulta, in ogni singolo fruitore odierno.
Senza mai essere presuntuosa e, così, mirare a quell’Olimpo dei capolavori cinematografici, Domino rimane un’opera (nonostante i trenta minuti di tagli subiti nel montaggio finale, le difficoltà con la produzione danese e un battage pubblicitario decisamente poco consono per un professionista come Brian De Palma) complessivamente di buona qualità: merito di una regia che, da decenni, ha posto i propri, riconoscibili marchi di fabbrica e di una abbacinante fotografia che crea interessanti giochi cromatici, Domino si conferma un film depalmiano al 100%. Non un capolavoro, certo, ma neanche una opus da scartare a priori visto e considerato la sua non proprio facile e, piuttosto, sfortunata gestazione.