Dino Villatico, Ecografia di un congedo. Giuliano Ladolfi Editore, 2021

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Chiunque abbia familiarità con la poesia sa come un amore non realizzato, e
funestato dalla morte della persona amata, non solo non si trasforma e non si
spegne, come avviene nelle relazioni comuni, ma resta una ferita che non si
rimargina e diviene un carburante che mantiene accesa la passione: la poesia sarà
così l’unica possibilità di sopravvivenza (e/o di realizzazione?) di un’esperienza
vissuta fra brevi momenti di ingannevole felicità e l’allucinato ingorgo di desiderio,
immaginazione, stravolgimento dei sensi, e infine acerbo, non sanabile rimpianto.
Ma spesso ne consegue la sublimazione della persona scomparsa, cui viene dato il
privilegio di rivivere e durare insieme alla vita concessa ai versi.

Una situazione simile si può trovare ora in Ecografia di un congedo di Dino Villatico (Ladolfi Editore, 2021), un libro di poesia interamente dedicato al ricordo di Martin, un giovane
americano che negli anni Sessanta è stato un amore giovanile del poeta. A
differenza però di quanto accade di solito, qui si parla di una relazione amorosa
vissuta come reciproco desiderio ma non realizzata, protratta per vari anni e poi
interrotta. È solo dopo cinquanta anni di silenzio che l’autore, consultando internet,
viene a sapere che Martin non c’è più: è morto da una ventina di anni. Situazione
singolare che rende la vicenda un mirabile unicum letterario e psicologico: l’amore
sopito nella lontananza si risveglia e ritrova l’antico, convulso prorompere del
desiderio. Nella poesia introduttiva il volto sorridente del giovane Martin guarda il
poeta dalla schermo del computer: e si genera così l’illusione di una presenza (“sono
qua, mi vedi?”). Non sottovaluterei l’importanza modernissima che viene data qui a
internet e al computer, complici nell’azzerare le distanze temporali e nel rendere
reale ciò che altrimenti non potrebbe esserlo.

Il libro si articola in passi nei quali compare la ricerca angosciata delle circostanze della morte prematura di Martin, il ricordo dei momenti passati insieme, a Roma e negli Stati Uniti, e le riflessioni del poeta sul destino di morte, sul nulla che, come appare dalla Storia e come hanno cantato i più grandi poeti, incombe sui viventi (si veda ad es. Ode al monte Soratte
nel Referto 10, p.51 ss). Non manca l’eco della grande poesia del passato, che affiora
talvolta nel linguaggio: dal dantesco “le cose tutte quante hanno ordine tra loro”
p.33 al foscoliano “illacrimata” p.85, al leopardiano “verecondo raggio” o “placida
notte” p.63, al pascoliano “meno morte sarebbe” p.84, mentre il ragionare esplora
le proprie contraddizioni, convulso e interrogativo nelle spire dell’incertezza.
Conoscenza e pratica della musica e della letteratura accomunano e uniscono i due
giovani: il racconto in endecasillabi del loro stare insieme è vivo, dettagliato, e
riguarda case, pianoforti, libri, e viaggi intrapresi per incontrarsi in un viavai tra
Roma, la California, Boston, San Francisco:

“Passammo insieme quell’estate quasi / due mesi. Di felicità, ma anche / d’inconsolabile disperazione. / Di castità forzata. Lo spiegasti, / perché. Ed accettai la spiegazione. / Amavi l’uomo che non possedevi. / Ma detestavi, dopo, il posseduto.”

Il ritratto di Martin emerge a poco a poco dal racconto: figlio di ebrei fuggiti in America, studioso raffinato di musica e letteratura, ricoverato in una clinica per malattie nervose, e infine solo di fronte a un tubetto di pasticche letali.
Ciò che il libro racconta, spesso sfiorando con estrema competenza l’andamento
della prosa senza mai tradire l’endecasillabo, è l’irrompere dell’imprevisto e il
conseguente vivere un’esperienza agli estremi, una traversata sui ghiacci
dell’assenza e sul deserto rovente dei sensi. Una morte ignorata per venti anni
riappare e provoca una saldatura del presente con un passato ormai remoto: ci
colpisce il furore immaginativo che riporta alla vita e alla concretezza dei gesti e
delle parole quell’ombra dispersa nella dimenticanza. Quasi a voler diagnosticare un
male inspiegabile, non a caso il libro si intitola Ecografia di un congedo: il temine
medico indica la volontà di vedere dietro le apparenze l’annidarsi di un rovinoso
groviglio esistenziale per consegnarlo all’unica possibilità di cura, la restituzione che
solo la poesia può dare come risposta all’ostinazione nel calcolo dell’impossibile.
Davvero Martin non c’è più? Eppure dallo schermo del computer la sua immagine
riporta a un illusorio presente la flagranza del vivere:

“La fotografia / incollata là sopra, del tuo niente / che mi ritorna, è voce di quel vuoto / soggiorno, o immedicata nel mio cuore / tua persistenza d’inattuato amore, / e ostinata mia
smania di risposta?” p. 88.

Dunque un libro notevole che esplora il coincidere di presenza e assenza nel
rapporto con chi è scomparso, quasi a volergli trovare un seguito oltre la morte:

“Vorrei non risvegliarmi più. Tenerti / inchiodato per sempre alla tastiera.” p. 93.

Maria Clelia Cardona

- 11/05/2022

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