A Lampedusa viveva un ragazzo innamorato del mare. Lo amava così tanto che se ne stava a bagno giorno e notte. La madre lo chiamava dalla riva, urlando a squarciagola:
«Cola! Cola! Vieni a terra, che fai sempre in mare? Non sei mica un pesce!»
E più lei gridava, più lui nuotava lontano, lontano, mentre la donna consumava voce e polmoni tra le onde e il vento. Un giorno urlò finché non sentì qualcosa scoppiarle nel ventre e, sconvolta dal dolore, gli mandò una maledizione:
«Cola! Cola! Che tu possa diventare un pesce!»
Se lo avesse saputo, la meschina gli avrebbe augurato di diventare un medico, un ingegnere, un astronauta: proprio in quel momento le orecchie di Signoriddio erano spalancate e la maledizione colpì nel segno. Un istante dopo, a Cola spuntarono le palme tra le dita, come le papere, e le branchie ai lati del collo, gli si allungò il viso e divenne mezzo uomo e mezzo pesce. Sua madre allora gli gridò:
«Cola! Cola! Almeno studia, diventa subacqueo, archeologo marino, insomma fa qualcosa! Non finire come tuo padre, che passa la vita davanti alla televisione col telefono in mano!» Ma Cola aveva altri sogni e a terra non ci tornò più. La povera madre cadde in depressione e, poco tempo dopo, mise in una valigia le sue quattro cose e emigrò al nord, su una montagna sperduta e arida, senza laghi e senza fiumi, dove la gente neppure lo sapeva che esisteva il mare.
Intanto Cola nuotava, nuotava, nuotava e incontrava delfini, balene, squali e pesci di ogni specie, con i quali si lanciava in sfide che divennero leggendarie tra i pescatori. Alcuni marinai giurarono di averlo visto nuotare a delfino in mezzo ai delfini, e che persino gli squali si fermarono incantati a guardarli. A volte Cola incontrava dei barconi alla deriva, carichi di uomini, donne e bambini assetati, arsi dal sole e dal sale, e li aiutava a raggiungere la riva. Altre volte invece recuperava cadaveri, montagne di morti annegati, e li depositava sulla sabbia asciutta affinché qualcuno gli desse sepoltura. Qualche volta li seppelliva lui stesso, in fondo al mare, nei posti più belli che riusciva a trovare, piangendo lacrime amare nel mare salato.
La voce che nelle acque di Lampedusa c’era uno mezzo uomo e mezzo pesce che salvava vite umane arrivò fino al ministro dello Zar che si infuriò e ordinò a tutti i marinai che, chiunque vedeva Cola Pesce, gli dicesse che il ministro gli voleva parlare. Poi mandò un uozzàpp sul gruppo degli Ammiragli Supremi e ordinò di arrestarlo, meglio ancora di sparargli a vista, ma questi gli risposero che obbedivano soltanto alle leggi del Parlamento e al Re della Repubblica. Allora scrisse ai capitani, ma ottenne la stessa risposta, ai tenenti, niente, ai sottotenenti, nisba, ai guardiamarina, un fico secco, agli aspiranti e agli ambiziosi, uguale, e così fino all’ultimo sergente e sottocapo, nessuno gli obbedì, finché non trovò uno che sapeva remare che gliel’arrestasse: si faceva chiamare capitano A.C.A.B., ma non era mai riuscito a entrare in marina perché era un analfabeta militante.
Un giorno, costui, andando in barca al largo, se lo vide passare vicino nuotando.
«Cola! – gli disse – C’è il ministro dello Zar che ti vuole parlare!» E Cola Pesce subito nuotò verso la capitale.
«Aspetta! – gli gridò – Dammi un passaggio, ché fino alla capitale mi stanco a remare!» Cola Pesce si fece lanciare una cima, se la legò alla vita e nuotò fino al palazzo del ministro con la barca al traino. Scesi a riva, il sedicente capitano A.C.A.B. gli mise le manette e lo portò al cospetto del ministro dello Zar.
Il ministro dello Zar, vedendo questo ragazzino senza neppure un pelo di barba, si indignò a tal punto che spense il telefono, posò il panino, sospese la fila per i selfie e gli fece la faccia cattiva!
«Cola Pesce – gli disse – hai salvato dalla morte migliaia di pirati, briganti e terroristi! Da questo momento sei mio prigioniero. Se vuoi rivedere il mare, devi giurare immediatamente che non aiuterai mai più i barconi a toccare riva!»
«Io non aiuto i barconi, aiuto le persone», rispose Cola Pesce, ma il ministro dello Zar fu irremovibile: «O la smetti o ti butto in una cella secca e senz’acqua per tutta la vita», ma Cola Pesce restò in piedi davanti a lui, muto come un pesce. Allora il ministro dello Zar escogitò un’altra strategia:
«Cola Pesce, io sono un padre e tu sei un ragazzino. Voglio darti una possibilità. Tu che sei un così bravo nuotatore, invece di fare lo scafista di Soros, farai l’esploratore: andrai in giro tutt’intorno alla Sicilia, alla Sardegna e alle coste dell’Italia e mi dirai dove si trovano i tesori e ogni altra forma di ricchezza! Se non ubbidisci, farò arrestare tua madre per emigrazione clandestina.»
«Ma mia madre è italiana, non è emigrata al nord illegalmente!», replicò Cola Pesce.
«E chi lo dice?» rispose il ministro dello Zar.
«La legge», rispose Cola Pesce.
«La legge sono io», rispose il ministro, e gli mandò un bacione.
Cola Pesce allora ubbidì e si mise a nuotare tutt’intorno alle coste italiane. Dopo qualche tempo tornò pieno d’entusiasmo e raccontò che in fondo al mare aveva visto montagne bellissime, valli piene di tesori e relitti di ogni epoca, caverne piene di ricchezze immense e pesci di tutte le specie, patrimoni tali da salvare il paese e dare lavoro e sostentamento a tutti i poveri! Poi si fece triste e confessò di aver avuto paura solo passando vicino al palazzo del ministro dello Zar, perché lì non era riuscito a trovare il fondo. Tutto ciò che si avvicinava al suo palazzo, spariva come in un buco nero: oro, diamanti, titoli di stato, tutto ciò che aveva portato con sé per farlo vedere al ministro, era stato attratto da quel buco come la più potente delle calamite, svanendo senza fare alcun rumore. Aveva atteso per ore di sentire il tonfo, ma niente.
«Non ti preoccupare di questo, è normale, il pozzo del palazzo del ministro dello Zar lo fa. Lo deve fare, è il suo mestiere di pozzo senza fondo. Anzi, adesso prenderai tutte le ricchezze che hai trovato in giro per le coste italiane e le getterai proprio in questo pozzo, dove saranno al sicuro e nessun ladro giunto sui barconi potrà rubarle!»
«Ma è legale questa cosa? Non dovremmo avvertire la Sovrintendenza, il ministero dei Beni culturali, il Re della…»
«Fallo, o arresto tua madre per mafia!» ordinò il ministro dello Zar.
«Ma mia madre non è mafiosa, non si può arrestare una donna onesta senza motivo!», rispose Cola Pesce.
«E chi lo dice?», rispose il ministro.
«Va bene, ho capito», rispose Cola Pesce, e suo malgrado ubbidì.
Qualche tempo dopo Cola Pesce tornò e annunciò la fine della missione, ogni ricchezza era finita nel pozzo senza fondo del palazzo del ministro dello Zar, al sicuro dai temibili barconi:
«Ora vi chiedo di poter tornare a nuotare in pace, come mi avevate promesso», disse Cola Pesce, ma il ministro rispose:
«Cola Pesce, non è il momento di riposare. Ora voglio sapere dove si trovano le immense ricchezze d’Europa. Scenderai giù e farai il giro di tutte le coste europee, raccoglierai ogni tesoro e lo metterai al sicuro nel pozzo», ma Cola Pesce gli rispose:
«Signor ministro, non è necessario andare così lontano, io so già dove si trovano tutte le ricchezze d’Europa.»
«E perché non le hai prese, pezzo di idiota?», gridò il ministro.
«Perché, signor ministro, appena al largo di Ventotene, sul fondo della scarpata continentale, si trova un manifesto scritto col sangue, e su questo manifesto poggiano tre colonne: una sana, una scheggiata e una rotta, e su queste colonne si regge tutta l’Europa. Quella rotta è di marmo, spezzata dalle guerre millenarie che hanno devastato il continente e la terra. Quella scheggiata invece è tutta d’oro e poggia sulla frase: “La ricchezza d’Europa sta tutta…”, ma il resto non si legge, perché si trova sotto la colonna.»
«Allora andrai giù, sposterai la colonna e finalmente sapremo dove si trovano queste ricchezze!», disse il Ministro.
«È impossibile, signor ministro, perché lì vicino c’è una coltre di fumo che esce da sotto uno scoglio e intorbidisce l’acqua, e la colonna scheggiata è troppo pesante, non la si può sollevare. E poi sono quasi morto di spavento, perché c’era un pesce enorme, dalla testa pelata, giallastra, con file di denti acuminati come lame, che solo nella bocca poteva entrarci un bastimento tutto intero! E quando spalancava la bocca ne usciva la testa di un altro pesce, ancora più grande, e dalla bocca di questo ne usciva un’altra ancora più grossa e orribile! Per non farmi inghiottire mi sono dovuto nascondere dietro la terza colonna che regge l’Europa. Io non mi tuffo più, ho paura.»
«Quello che hai visto è il pesce Zar, se lo temi non ti uccide. E adesso basta chiacchiere!», disse il ministro. Chiamò il portaborse, gli ordinò di prendere una cassa da ammiraglio, una nave ammiraglia, un cappello da ammiraglio e una felpa della Marina con la scritta “Ammiraglio”, e tutti insieme andarono al largo di Ventotene. Appena giunti, il ministro dello Zar aprì la cassa, tirò fuori la Sacra Corona del Re della Repubblica, tutta d’oro, platino e pietre preziose che abbagliavano lo sguardo, la pose tra le mani di Cola Pesce, gli ordinò di alzarla in alto più che poteva e gli scattò una serie di foto. Poi riprese la Corona dalle sue mani e la gettò in mare.
«Ministro, che cosa avete fatto? La Sacra Corona!», gridò disperato Cola Pesce.
«Quella è la corona più preziosa al mondo. Ora vai giù e recuperala, insieme alla mappa dei tesori d’Europa. Se non lo fai, pubblicherò le tue foto su feisbuk e dirò che sei stato tu a gettarla in mare, e tutti ti odieranno e ti cercheranno per ucciderti. E io farò arrestare tua madre per traffico internazionale di stupefacenti!»
«Mia madre non ha mai neppure fumato una sigaretta in vita sua… E va bene. Se voi così volete, ministro, mi tufferò, – disse Cola Pesce, in preda alla disperazione – ma il cuore mi dice che non tornerò più su. Datemi un guanto, ago e filo, e delle forbici per tagliare il manifesto. Se sopravvivrò, tornerò su io, ma se vedrete venire a galla il guanto, è segno che non torno più.»
«Dategli quello che ha chiesto», ordinò il ministro, e riprese la fila dei selfie interrotta qualche giorno prima.
Cola si tuffò e stette sott’acqua un giorno intero. E aspetta un giorno. E aspetta due giorni. E aspetta tre giorni. Il ministro dello Zar si innervosì. Al termine del quarto giorno, al tramonto, mentre stava per postare le foto di Cola Pesce con in mano la Sacra Corona del Re della Repubblica e la taglia di dieci casse di barattoli di Nutella per chiunque lo uccidesse, venne a galla il guanto. Subito dei marinai si gettarono in acqua per recuperarlo, lo afferrarono e lo porsero al ministro ancora tutto gocciolante.
Il ministro dello Zar, per l’ansia di leggere, lanciò il telefono in mare ma acchiappò il guanto. Vide che era stato gonfiato e ricucito strettamente sul polso, per farlo galleggiare, e che quattro dita, indice, anulare, mignolo e pollice, erano state suturate sul palmo, e solo il dito medio era rimasto aperto. Le dita chiuse stringevano un brandello del manifesto: vuoi vedere che è la mappa del tesoro? Il ministro sfilò il foglietto, lo aprì e lesse: “La ricchezza dell’Europa sta tutta nella memoria della sua storia millenaria e di coloro che sono morti per la nostra libertà. Onoriamoli.” E restò lì sbigottito, col guanto in mano, a guardare quel dito medio ben steso, fiero e illuminato dal sole al tramonto.
Cola Pesce s’aspetta ancora che torni.
Si dice, ma è solo una leggenda, che nel primo giorno di immersione Cola Pesce sia andato direttamente da sua madre al nord e che sia fuggito con lei in Spagna dove avrebbe venduto la Sacra Corona del Re della Repubblica e, con l’immensa fortuna ricavata, si sia laureato in scienze marine lavorando per il bene del mare, della Terra e dei sopravvissuti ai naufragi. Il padre di Cola, invece, sta ancora davanti alla televisione col telefono in mano. Un giorno lasciò il divano per andare in bagno, approfittando di una pausa pubblicitaria mentre guardava una replica de “Il padrino”, e il ministro lo fece arrestare per emigrazione clandestina, mafia e spaccio internazionale di stupefacenti, ma lui neanche se ne accorse. È lì, che scorre i pollici sul telefono e guarda il ministro dello Zar, dal carcere.