Brahms | Martucci
Two Sonatas and Two Romances
for cello and piano
Luigi Piovano, cello
Antonio Pappano, piano
ARCANA A479
1 cd
Forse Martucci poteva essere lasciato nel cassetto. Forse. Ma, d’altra parte,
perché trascurare un tassello della storia musicale italia? Martucci mostra assai bene la
distanza che alla fine dell’Ottocento si è venuta a scavare tra la musica tedesca e quella
italiana. Distanza che comunque proprio Martucci si preoccupa di diminuire. E in ogni
caso non si tratta di distanza di qualità musicale, ma d’impostazione dei generi musicali e
della loro predominanza in una cultura. Il romanzo, per esempio, in ambito letterario, non
ha in Italia l’importanza che ha in Francia, in Inghilterra, in Spagna e in Germania.
L’acquisterà proprio negli ultimi decenni dell’Ottocento. Per quanto riguarda la musica,
l’ultimo Verdi e il primo Puccini sono perfettamente inseriti nel clima musicale europeo del
tempo, e ciascuno fin dall’inizio. Ma si tratta di teatro. L’orchestra di entrambi, così pure
come la vocalità, si confronta consapevolmente con l’orchestra e la vocalità del tempo.
Dalla fine del Settecento, invece, si esaurisce nella società italiana l’interesse per la
musica da camera: Boccherini è forse l’ultimo compositore italiano di musica
esclusivamente strumentale che acquisti una fama e un’autorità europee. Paganini è un
caso a sé, e riguarda più il mostro di virtuosismo che il compositore (in realtà Liszt e
Schumann non la pensavano così, tanto da prenderlo a modello, almeno agli inizi). Non che in Italia non si eseguisse musica da camera nei concerti, nei salotti e a
casa, e non si pubblicasse. Ma non era l’interesse principale degli italiani, tutti presi invece
dal melodramma. I compositori, pertanto, se volevano vedersi pubblicati ed eseguiti,
dovevano scrivere per il teatro. Per il consumo da camera si ricorreva perciò, per lo più,
alla produzione straniera, tedesca soprattutto e, in misura minore, francese. Martucci,
come il suo contemporaneo Sgambati, nella seconda metà dell’Ottocento, segna una
svolta. Fu, tra l’altro, il primo che fece rappresentare anche in Italia il Tristano di Wagner,
nel 1888, a Bologna, dov’era anche stata data la prima rappresentazione di un’opera di
Wagner, il Lohengrin, nel 1871. Allievo a Napoli di Beniamino Cesi, a cui dobbiamo la
prima edizione italiana commentata del Clavicembalo ben temperato di Bach, Martucci è
profondamente attratto dalla musica tedesca. E i suoi modelli sono, appunto, Schumann,
Brahms, Wagner. Dunque l’accostamento, in questo cd dedicato alle sonate per violoncello
e pianoforte di Bach, ha un senso, soprattutto per l’ascoltatore italiano. Che cos’è che
distingue, subito, la scrittura dell’italiano da quella del tedesco? Ciò che tradizionalmente
distingue la tradizione italiana dalle tradizioni europee: la prevalenza della melodia
sull’elaborazione armonica e contrappuntistica. Si badi: non è un giudizio di valore. La
melodia belliniana, per esempio, così nuda, sostenuta da armonie molto semplici e poco
elaborate) la melodia belliniana, ripeto, è inimitabile, per la sua straordinaria
imprevedibilità. Anzi, proprio la sua nudità, la povertà dei sostegni armonici la rende così
particolare. Questo la distingue, per esempio, dalla melodia di Chopin, al quale è spesso
confrontato, ma a torto, perché la complessità armonica e contrappuntistica della melodia
chopiniana è del tutto estranea a Bellini. Invece, proprio per questa sua nuda
preponderante solitudine, come sospesa sul vuoto, la melodia belliniana aveva non a caso
colpito Wagner, che voleva rifondare un’armonia basata sulla melodia. La melodia di
Bellini è costruita con sovrana opera di dosaggio delle simmetrie, anzi in genere preferisce
lo sbilanciamento verso l’asimmetria, che è proprio ciò che la rende imprevedibile, è dunque una melodia che non nasce d’istinto, ma è costruita con controllatissima
consapevolezza. Martucci dà rilievo alla cantabilità degli strumenti, come Bellini alla voce.
Ma Brahms non vi s’infiltra per caso come suggeritore nascosto. L’armonia si complica, il
ritmo è meno fluido. Pappano e Piovano vi si abbandonano, allora, con un piacere sottile
che sanno comunicare all’ascoltatore. Una sorta di cantabilità italiana immersa in un clima
armonico tedesco.
Veniamo però, adesso, alle due sonate brahmsiane. La prima, op. 38, è composta
in un periodo cupo della vita di Brahms. La morte dell’amico Schumann, nel 1856, gli
ispirano i primi abbozzi e la morte della madre, nove anni dopo, gli suggerisce di portare a
termine il lavoro. Brahms è stravolto dalla scomparsa di chi ama, ma da tedesco del nord,
ne racchiude in sé stesso il turbamento, la disperazione, deve trovare un filtro al
sentimento, come farà sempre, la confessione non è il suo registro. Ma lo è la meditazione,
la rielaborazione emotiva e concettuale dell’esperienza. La sua musica allora, in questi
anni, si fa profonda meditazione musicale sulla morte, che nel Requiem Tedesco è
esplicita: il primo verso intonato dal coro, tratto da un salmo, recita: “Beati sono i morti”.
Nulla di funebre, però, né nel Requiem op. 45, né nella Sonata op. 38, né nel Trio op. 40 o
nei due Quartetti op. 51 o nei Lieder di quegli anni. Sì, però, un clima introspettivo, quasi
artificioso, tendente all’elaborazione astratta delle cellule musicali, come nell’ultimo
Beethoven, ma con molta minore espansione, molta minore effusività melodica: il canto
c’è, e bellissimo, accarezzante ma come incerto, trattenuto, rarefatto, e la scrittura
diventa una riflessione sul fare musica, sembra costituire insieme un punto
d’interrogazione e una voglia di rinnovamento, una sintesi della tradizione e una
rielaborazione non degli stili, bensì del pensiero musicale, del modo di scrivere musica.
È come se la cupezza, la tristezza, forse la disperazione personale, fossero distanziate,
superate attraverso una capillare esercitazione dell’atto di comporre: armonia, melodia,
ritmo sono ripensati, riconsiderati attraverso un lavoro minimale del contrappunto. Il che
non gli impedisce di abbandonarsi talora a scatti d’improvvisa, lancinante effusione
cantabile. Ma a dominare è il controllo della scrittura, il riserbo dell’effusione. La mente va,
naturalmente, a Bach. Ma anche all’ultimo Beethoven, all’ultimo Schumann, del quale, tra
l’altro, ha usato il tema cosiddetto degli Spiriti – un tema che Schumann dice suggeritogli
in sogno dal fantasmo di Schubert – per una breve, intensissima serie di variazioni.
Brahms è attratto enormemente dal canto popolare, dal canto a gola spiegata. Ma vi si
abbandona raramente, e mai completamente. Quando però esplode, il canto risulta di una
intensità inimitabile. Questo lavoro di controllo non frena l’intensità dell’espressione, ma
anzi la rende se possibile più esplosiva, proprio perché trattenuta. Come ottiene Brahms
tutto questo? Attraverso un lavoro assai sottile di analisi della caratteristiche ddi una
melodia, che tenta di ridurla ai suoi elementi fondamentali, alla cellula ritmica e melodica
che la genera. Su quesro elemento che diremmo originario, subtematico, Brahms elabora
tutto il tessuto tematico di un tempo, spesso dell’intero componimento. La lezione gli viene
naturalmente da Beethoven, da tutto Beethoven, soprattutto però dall’ultimo. Ma, come si
è detto, anche da Schumann, e, soprattutto per quanto riguarda l’effusività cantabile, da
Schubert. Ma a prevalere è sempre la consapevolezza dell’elaborazione, il controllo
pudico dell’espressione. Brahms non conosce mai un momento di vero abbandono, di
cedimento al piacere di divagare, piacere che per esempio pervade tutta l’opera di
Schubert. Vediamo, però, nel concreto come ciò si possa cogliere nell’elaborazione della
Sonata op. 38. Intanto colpisce il fatto che nella sonata manca un tempo lento. Brahms
non è il primo, ci sono già in Beethoven sonate prive del tempo lento. E prima, in Haydn –
amatissimo da Brahms – e in Mozart. Il tempo lento, un adagio, immaginato al principio
come secondo tempo della sonata, è espunto e riutilizzato anni dopo per l’altra sonata
dedicata al violoncello e al pianoforte, l’op. 99. Pertanto l’op. 38 è in tre tempi e manca di un tempo lento. Il tempo centrale è un Allegretto, quasi minuetto. La cellula tematica è
tolta da una frase del violoncello nella terza battuta del primo tempo. Il trio del minuetto
usa la stessa cellula, ma sviluppata in un continuum che non conosce sosta. Il minuetto ha
in Brahms lo stesso senso che ha la memoria del tempo perduto nei minuetti di
Beethoven. È la contemplazione di un’armonia perduta. Ma è proprio in questa
contemplazione che la sonata tocca il suo centro, il suo nodo espressivo. La premonizione
inquieta del primo tempo, così frammentaria, tortuosa, contraddittoria, si distende in
questa distaccata contemplazione del dolore, come se a guarirne fosse necessario un
distanziamento o, per così dire, un raggelamento. Che la dolcezza accattivante del canto –
perfino nell’attacco della sonata – non riesce però del tutto a nascondere: il dolore è
ammorbidito, ma non soffocato. Brahms elude, ma non cancella mai, un conflitto, una
sconfitta. E si noti che la sonata comincia con tema cantabile. Bisognerà decidersi di
buttare alle ortiche i manuali di storia della musica e di composizione che ancora insistono
sui temi contrastanti di una sonata, il primo ritmico, energico, il secondo melodico,
cantabile.
Molte sonate di Mozart, Haydn, Beethoven cominciano con tema dolcemente
cantabile, e perfino le sinfonie – per esempio la Pastorale di Beethoven. Il finale dell’op. 38
è un tour de force: la cellula subtematica è variata e adattata a un vorticoso soggetto di
fuga. Che non ci sarà. Tutto il tempo è un concitato dividersi e ricostruirsi della cellula, una
corsa verso la tempestosa conclusione. L’op. 99 offrì il destro a Schoenberg per mostrare
in Brahms quanto fosse stato dominante e fecondo il principio beethoveniano della
continua variazione: il tema non è dato subito una volta per tutte, ma si forma via via, e via
via mostra nuovi aspetti di sé stesso. Qui la cellula generatrice è ancora più scarna che
nell’op. 38. Un giambo. Una croma seguita da una minima (due semiminime legate divise
dalla stanghetta della battuta). Su questo ritmo è costruita l’intera sonata. Le cellule che si
espandono a modulare una melodia nascono da questo impulso, che percorre tutti e
quattro i tempi. Incredibile la varietà di atteggiamenti espressivi che Brahms sa trarre da
così poco, compreso l’amabile, accattivante finale, un’oasi di benessere dopo tre
tempestosi movimenti. E anche qui l’esempio di Beethoven non è dimenticato.
Antonio Pappano è conosciuto dal pubblico più come versatile direttore
d’orchestra che come pianista. È invece un formidabile interprete di musica da camera.
Anzi, può darsi che la sua sapienza orchestrale nasca proprio da una usuale, familiare
consuetudine di musica da camera. La sintonia dei due interpreti appare, anche al solo
ascolto (ma seguirli sulla partitura rivela tutte le finezze di lettura) straordinaria. Il che
significa che i due strumenti sono davvero complementari. Anche in Martucci, dove
indubbiamente la cantabilità del violoncello prevale, il ruolo del pianoforte non è confinato
a sostegno armonico, ma avvolge la melodia con mutanti atmosfere armoniche che ne
qualificano l’espressione, il senso, anche melodico. In Brahms tutto ciò diventa
rappresentazione di un mondo musicale di stupefacente complessità. Perché, forse, il lato
più interessante di quest’interpretazione brahmsiana che Pappano e Piovano ci offrono sta
proprio nella molteplicità dei piani sonori che mutano di momento in momento, a restituirci
la voce di uno dei compositori più intricati, complessi che ci siano, spesso indecifrabile
proprio per quanto complicata è la sua scrittura, e questa, di Pappano e Piovano, è
dunque una bellissima lezione d’interpretazione. Si ascoltino le figure di tremoli del
pianoforte sotto la melodia del violoncello, nel trio dello scherzo dell’op. 99, pianoforte e
violoncello gareggiano in delicatezza. Per tutto il percorso delle due sonate il suono del
violoncello (un Alessandro Gagliano del 1710, Napoli), sotto le dita e l’arco di Piovano è
mutevolissimo, corposo, morbido. Il pianoforte di Pappano gli si oppone o lo affianca,
talora anche con rudezza, ma sempre nel giusto dosaggio di rapporto sonoro tra i due
strumenti. Davvero una lezione di come si legge Brahms, e, più in generale, di come debba essere complesso l’avvicinamento a partiture di tale complessità, come sono le
partiture di quste due sonate brahmsiane. Ci si figura, adesso, un Beethoven. Perché no?
Ma l’ascolto mi suggerisce ancora alcune riflessioni, sul formarsi di idee infondate
riguardo alle forme musicali. Ho di sfuggita accennato al fatto che l’op.38 di Brahms
attacca con un tema melodico. Basterebbe da sé a far rivedere la formulazione scolastica
della forma sonata come viene esplicitata in storie della musica, manuali di composizione,
dizionari. Non è invece una novità di Brahms. L’op. 101, ma anche l’op. 110, e altre sonate
di Beethoven, attaccano con un tema melodico, per non parlare del tema cantabile con cui
si apre il Trio dell’Arciduca. Anche Beethoven però, non fa niente di nuovo. Mozart attacca
spesso una sua sonata, un suo concerto, una sua sinfonia, con un tema melodico. Tra le
tante, le Sonate K. 332 e K. 333 per pianoforte. E lo stesso fa Haydn, per esempio nella
sublime sonata per pianoforte in do minore Hob. XVI. 20, del 1771. Allora i casi sono due,
o i compositori classici, e Brahms, che sviluppa l’eredità, non sanno scrivere sonate, o il
modello di sonata che si propone non ha nessun fondamento reale. Altra sciocchezza che
si sente dire è che Beethoven innoverebbe l’ordine dei tempi della sinfonia, nella Nona,
perché colloca lo scherzo al secondo posto. Ma quando mai! La collocazione del tempo di
danza all’interno della sinfonia era mobile. Ora era il secondo, ora il terzo tempo. Haydn,
nella Sinfonia in mi minore, Hob. I. 44, detta “funebre”, colloca il minuetto, un allegretto, al
secondo posto e l’adagio al terzo. Si potrebbe continuare. Come nascono simili fallaci
idee? Semplicemente tramandandosi l’una con l’altra, senza controllare la veridicità
dell’affermazione, senza verificare il dato affermato.
Un altro esempio: Rossini, componendo la Semiramide per la Fenice di Venezia, nel 1823, tornerebbe a forme convenzionali di melodramma, dopo il periodo sperimentale di Napoli. Peccato che quelle forme chiamate “convenzionali” siano un’elaborazione, se non addirittura un’invenzione di Rossini. A noi paiono convenzionali proprio perché poi diventano, almeno fino a Verdi, la norma. In realtà nella Semiramide Rossini sperimenta come sviluppare tali forme
all’interno di una forma più generale che le contenga tutte. L’aria si estende al punto da
diventare già essa stessa una scena e si collega alle arie successive in un’architettura –
soprattutto armonica – che le fa apparire tessere di un unico mosaico. Se c’è un aspetto
che sorprende quando si assiste alla rappresentazione della Semiramide è l’estrema
coerenza con cui è costruito il primo atto e poi il secondo e come entrambi siano concepiti
come un’unica forma ch’è appunto la forma del melodramma che ha per titolo
Semiramide. Nel suo bellissimo volume dedicato all’Ottocento, Karl Dahlhaus questo lo
illustra e lo spiega benissimo. E anzi non a caso colloca Rossini e Beethoven all’inizio del
secolo come modelli dello sviluppo successivo della musica teatrale e sinfonica. Ora, tutto
ciò, questi chiarimenti, la liberazione da questi equivoci, si ottiene in un solo modo:
confrontandosi di volta in volta con la pagina e dalla lettura della pagina ricavando
eventuali criteri formali. L’operazione inversa di adattare la pagina a un modello
precostituito non è ammessa da nessun metodo di analisi che voglia dirsi critico, ma è solo
la semplificazione di una realtà complessa, il tentativo imbarazzante ed erroneo di credere
più facile, per l’apprendimento e la divulgazione, uno schema, una regola semplici, invece
del confronto con la molteplicità e complessità del reale panorama musicale. Ciò vale non
solo per la musica, Ma in qualunque campo. Non parliamo poi in politica. La
semplificazione è sempre un inganno, una falsa informazione, il mascheramento in forme
banali di una realtà complessa. E poiché noi viviamo in una realtà complessa, la
semplificazione disorienta, è svantaggiosa, perché non fa comprendere la realtà che dice
di spiegare. C’è solo una categoria di persone che può trarne vantaggio: quella che
diffondendo la semplificazione non vuole che la verità complessa sia compresa, perché la
comprensione nuocerebbe ai suoi interessi, in altre parole scoprirebbe gli altarini. Che è
proprio ciò che chi invece vuole ingannare teme come il pericolo maggiore. Tra l’altro, in musica, ma anche in altri campi, non è vero che la semplificazione fa capire meglio ciò che
si ascolta (o si legge, si vede). Perché proprio quando se ne comprende la sua
complessità, un’opera la si può godere in tutta la sua ricchezza.
Dino Villatico