ROMA. TEATRO DELL’OPERA. Teatro Costanzi.
Alceste
Musica di Christoph Willibald Gluck
Tragédie / Opéra en trois actes
(versione parigina del 1776, pubblicata nel 1779) Libretto di Marius-François-Louis Gand Le Bland, Bailli du Roullet dall’Alceste di Raniero de’ Calza bigi
Tratto dall’Alcesti di Euripide
GIANLUCA CAPUANO
SIDI LARBI CHERKAOUI
MAESTRO DEL CORO ROBERTO GABBIANI
ASSISTENTE ALLA REGIA ACACIA SCHACHTE
REGISTA ASSISTENTE GIULIA GIAMMONA
ASSISTENTE DIRETTORE D’ORCHESTRA BENEDIKT SAUER
SCENE HENRIK AHR
COSTUMI JAN-JAN VAN ESSCHE
LUCI MICHAEL BAUER
DRAMMATURGIA BENEDIKT STAMPFLI
Principali interpreti
ALCESTE MARINA VIOTTI
ADMÈTE JUAN FRANCISCO GATELL
EVANDRE PATRIK REITER
LE GRAND PRÊTRE / HERCULE LUCA TITTOTO
APOLLON / UN HÉRAULT D’ARMES PIETRO DI BIANCO
UN DIEU INFERNAL / L’ORACLE ROBERTO LORENZI
CORYPHÉES CAROLINA VARELA, ANGELA NICOLI, MICHAEL ALFONSI, LEO PAUL CHIAROT
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA DI ROMA
EASTMAN, ANVERSA
con la partecipazione degli Allievi della Scuola di Danza del Teatro dell’Opera di Roma
Allestimento Teatro dell’Opera di Roma da una produzione Bayerische Staatsoper
Prima rappresentazione: 4 ottobre 2022. Repliche: 7, 9, 11, 13 ottobre 2022. Anteprima giovani: 2 ottobre 2022.
azione mimica, all’inizio
Nel 438 a. C. al Teatro di Dioniso di Atene va in scena l’Alcesti di Euripide. È la tragedia più antica che abbiamo di lui. Ma è una strana tragedia. Fu rappresentata al quarto posto della tetralogia drammatica che comprendeva tre tragedie e un dramma satiresco, cioè a conclusione, un’azione comica che chiudeva tre rappresentazioni tragiche. Si preannuncia già così in Euripide una tendenza che il grandissimo drammaturgo svilupperà con sempre maggiore coerenza: l’inserimento di personaggi o episodi comici all’interno dell’azione tragica, sviluppo parallelo a quello di degradare i personaggi eroici a condizioni umane e perfino subumane: Telefo vestito di stracci, Elettra umiliata a moglie di un contadino, Oreste imbestialito nei deliri della pazzia. Il che non gli impedisce, tuttavia, come osserva Aristotele, di essere il più tragico dei tragici, colui che porta sulle scene situazioni estreme. Ma la commistione di reale e di immaginario, di sublime e di quotidiano, di nobile eroismo e di bassezze morali, rientra in una visione realistica e di fatto pessimistica della vita umana, come scenario che mescola il più terribile e il quotidiano, il fantastico (Elena) e il degradato (Ciclope). La tragedia ebbe un’immensa fortuna nel secolo dei lumi. Alfieri la tradusse in versi italiani (traduzione bellissima, anche se qua e là vi sono ingiustificate licenze oppure inserzioni dettate dal gusto del tempo). Si provò anche a riscriverla in una drammaturgia moderna: disturbava dell’antico la miseria morale di alcuni personaggi, il padre, per esempio, che rifiuta di sacrificarsi per il figlio, o lo stesso figlio che chiede al padre di morire per lui. Alfieri colloca la vicenda su un piano di maggiore decoro morale, tra personaggi di più elevati sentimenti. Ubbidisce in questo alla cultura del tempo che nel tragico sopportava la crudeltà, la malvagità, ma non la mediocrità o la bassezza morale. Almeno nella classicheggiante cultura francoitaliana (Goethe, per esempio, già si muove in un panorama più comprensivo delle miserie umane). E, di fatti, Raniero de’ Calzabigi, quando per la rappresentazione viennese del 1767 scrive il libretto della “tragedia messa in musica dal Cavagliere Cristoforo Gluck”, si comporta nel medesimo modo e rispetta il decoro indispensabile per personaggi nobili. Gluck , poi, riprese il soggetto per Parigi nel 1776.
Admeto, Juan Francisco Gatell, e Alcesti, Marina Viotti
Ed è quest’edizione che si è vista al Teatro dell’Opera di Roma. Marius-François-Louis Gand Le Bland, Bailli du Roullet riprendono l’azione della tragedia di Calzabigi, ma la modificano per adattarla alla tradizione francese della tragédie lyrique. E reintroducono il personaggio di Ercole, che in Euripide risolve la vicenda e che Calzabigi aveva sostituito con un intervento dello stesso Apollo. La vicenda è lineare. Apollo ha ottenuto che il re tessalo Admeto, suo ospite, eviti la morte se qualcuno si offre di morire al suo posto. In Euripide il padre e la madre di Admeto si rifiutano di morire per lui. Si offre sua moglie Alcesti (Calzabigi, Alfieri, Le Bland, il nome greco Álkestis lo riscrivono Alceste; Alcesti è una più fedele trascrizione moderna del nome greco). Tanto Alfieri che Gluck espungono dalla vicenda ogni motivo comico. In Euripide comico è il personaggio di Ercole, sbruffone, ubriacone, millantatore, il che non è sentito contrastare la sua natura eroica. Alfieri e Gluck ne rispettano, invece, il carattere eroico, intendendolo come comportamento pieno di decoro. Ma Ercole è colui che, comunque, sia in Euripide, che in Alfieri e Le Bland, scioglie la vicenda, strappando Alcesti alla morte, e sostenendo per questo un combattimento con Tanatos (Alfieri nella traduzione rispetta il genere femminile della parola italiana “morte”, e Apollo la chiama perciò “filosofessa”): questa differenza di genere non fa percepire in italiano quanto nei testi greci, e tedeschi, danesi – in una bellissima fiaba di Andersen, La madre, compare la Morte, ed è un personaggio maschile -, senza contare quanto di ambiguo vi sia nel Lied schubertiano La morte e la fanciulla, se si pensa che la seduzione è condotta da una figura virile, e così pure nel Lied Il re degli Elfi, da una ballata di Goethe, dove la seduzione assume addirittura un carattere omoerotico, anzi di vera e propria pedofilia, carattere che certo non dispiaceva a Schubert. Il tragico antico, in ogni caso, riflette sul rapporto dell’uomo con la morte, vissuta come condanna, come infelicità connaturata al destino umano. I drammaturghi moderni approfondiscono, piuttosto, i motivi del sacrificio di Alcesti e disegnano perciò una figura dolcissima di moglie innamorata e fedele, di donna sensibilissima. Admeto, vanificando il suo sacrificio, pensa addirittura di uccidersi, commosso dalla dedizione della moglie, perché proprio perché lei gli dice di morire per lui, anzi al suo posto, si accorge di non poter vivere senza di lei. Ercole, strappandola alla morte, risolve la vicenda. Il dramma antico propone una domanda universale sul senso della vita.: sulla sua fragilità. Il dramma moderno indaga i labirinti dell’amore.
Admeto, Juan Francisco Gatell, e la Morte, all’ingresso degli Inferi
E di questi labirinti Gluck è un conoscitore sublime. Se nell’Orfeo ed Euridice la dimensione mitica è ancora presente, nell’Alceste a prevalere è la psicologia, la tragedia dei sentimenti. Gli dei sono lontani, incomprensibili. Com’è incomprensibile la morte, e ancora di più la vita. La voce terribile dell’Oracolo rappresenta musicalmente questa incomprensibilità: la vita e la morte sono inspiegabili, spiegabili restano solo i sentimenti. In ciò il tragico antico e il drammaturgo moderno sembrano coincidere. Ma mentre nell’antico la morte non è fenomeno inspiegabile, bensì solo un dato di fatto, una insopportabile natura dell’uomo, che appunto è definito “mortale”, nel moderno la morte è un problema, una condizione sulla quale l’uomo s’interroga. Sembra un saggio di Didérot.
Alceste, Marina Viotti
Lo spettacolo romano viene dal teatro di Monaco di Baviera. Il regista e coreografo Sidi Larbi Cherkaoui costruisce una rappresentazione che proietta sulla scena le geometrie quasi astratte, equilibratissime, della musica: il dolore, il tragico, nell’estetica settecentesca non possono e non devono rompere l’equilibrio della forma, anzi risultano terribili, proprio perché inseriti in una cornice armoniosa, e il contrasto può addirittura riuscire insopportabile: si pensi al teatro tragico classico francese, che è del secolo precedente, ma che proietta sul Settecento l’esigenza del decoro formale, come specchio del decoro morale. Pochi pannelli disegnano muovendosi il cambio delle scene e attori, coro e danzatori mimano con i gesti il sentimento che la musica raffigura: coincidenza perfetta tra gesto e azione, tra musica e dramma. Così come quando ai pannelli si sostituiscono lunghi drappi che avvolgono o trascinano i personaggi in movimenti di danza, che però si fanno gesti della disperazione. Il senso della cosiddetta “riforma” di Gluck è proprio questo: costruire con la musica un’azione che sia la musica stessa a designare, prefigurando i gesti degli attori. In altre parole si fa corrispondere alla tragedia di parola una tragedia musicale. Nelle partiture a stampa, sia dell’edizione viennese sia di quella parigina, l’opera di Gluck è chiamata “tragedia” dall’italiano Calzabigi, e “tragédie” dal francese Le Blanc. Ma non a caso la riforma trova il suo spazio più adeguato proprio a Parigi, dov’era nata la tragédie lyrique. L’edizione francese dell’Alceste, infatti, più ancora di quella italiana di Vienna, è forse la realizzazione più coerente di quella che Gluck volle chiamare riforma: un teatro nel quale la musica si assume il compito di scrivere e mettere in atto la drammaturgia. A questa intuizione di un’unità inscindibile di musica, gesto, scena, parola, danno corpo teatrale l’idea drammaturgica di Cherkaoui, la concertazione di Gianluca Capuano, e tutti gli interpreti, che vi si adeguano con meravigliosa duttilità. Veramente sulla scena la musica si fa teatro, il gesto si fa musica, il canto si fa emozione o, meglio, si fa riflessione sull’emozione. Del resto è proprio ciò che prevede Gluck. Le “pantomime” inserite nell’azione, non sono un diversivo, un divertimento, come sarà il balletto del grand-opéra, ma fanno parte dell’azione teatrale, sono elemento indispensabile del dramma, costruiscono la quadratura del cerchio in una rappresentazione che non separa i fattori che la compongono.
Alceste, Marina Viotti, tra le Ombre
Gli interpreti, tutti bravissimi, andrebbero citati tutti per l’omogeneità e per il lavoro d’insieme condotto così felicemente dall’inizio alla fine, in tutte le sue parti. Ma, oltre all’attenta, sensibilissima concertazione di Capuano, di un lucidità che fa leggere a chi ascolta la partitura, non si può dimenticare la nobile figura che Marina Viotti disegna di Alceste. La voce non ha grande spessore, o almeno così sembra, ma è ricca di molteplici sfumature espressive. Insomma, ecco un soprano che recita cantando, vale a dire con la voce, e non esagerando i gesti, ed è ciò che Gluck le chiede. Commovente il travagliato Admeto di Juan Francisco Gatell, che si conferma tenore di raffinata educazione teatrale e musicale. Luca Tittoto, dal canto suo, è bravissimo a impersonare due figure così diverse, quasi opposte, come il Grande Sacerdote ed Ercole, solenne, austero il sacerdote, nobile, energico l’eroe. Roberto Lorenzi presta la sua voce al terribile all’Oracolo e al Dio infernale. Pietro Di Bianco impersona con adeguata espressività il dio Apollo e l’araldo. Ma tutti, il coro del Teatro, i corifei, i danzatori, contribuiscono, ciascuno con una misura calcolatissima, all’efficacia e all’equilibrio di una rappresentazione in cui tutto si fa finalmente teatro, la musica, la danza, la recitazione, la scenografia mutevole e mai statica. Il pubblico perciò ringrazia tutti con calorosi applausi. Si è sentito qualche fievole buu, ma non si capisce diretto a chi e motivato da che cosa.
Alceste, Marina Viotti
Queste righe meriterebbero un ampliamento, un approfondimento, che lo spazio di una rivista non consente. Affrontiamo qualche spunto, offriamo qualche cenno. Lo spettacolo romano ci incita a riflettere, infatti, sulla correlazione tra i diversi elementi che contribuiscono a realizzare uno spettacolo teatrale. Soprattutto per quanto riguarda il teatro musicale – melodramma, dramma musicale, musical, tragédie lyrique, opéra-comique, avanspettacolo che sia. Sulla cosiddetta “riforma” di Gluck, per esempio, si continuano a scrivere cose inesatte. Non è, infatti, che il teatro precedente, il melodramma italiano o la tragédie lyrique francese, non fossero teatro. E che non tenessero quindi in conto una drammaturgia anche della musica. Ma era un teatro nel quale la musica assume il compito di rappresentare gli affetti dei personaggi. Non, dunque, di condurre l’azione del dramma, affidata ai recitativi. I quali, si badi, sono indispensabili e tutt’altro che inerti. E tutt’altro che inespressivi o musicalmente poco interessanti. Si deve solo alla cattiva recitazione di molti cantanti di oggi, al loro sbrigarsi frettolosamente del recitativo per arrivare all’aria, se nel pubblico odierno è sorta l’opinione che i recitativi non sono indispensabili al godimento dell’opera, il cui valore musicale starebbe tutto nelle arie. E che anzi, per molti, la realizzazione scenica, soprattutto se moderna, sembra quasi un impaccio, un disturbo. Ma Metastasio chiama non a caso drammi i suoi testi teatrali destinati a vestirsi di musica. Del resto l’intrico emotivo di un’aria non si capirebbe senza la precedente comprensione del recitativo che la introduce, senza anzi l’assimilazione della vicenda che si è via via andata sviluppando sulla scena. Un’aria d’ira sarà suscitata nel personaggio da qualche azione o detto che un altro personaggio ha fatto o espresso per scatenare quella sua ira. Spesso le trame dei melodrammi sei-settecenteschi sono complicatissime e quasi incomprensibili se lette in una sinossi. Ma diventano immediatamente comprensibili se seguite nello svolgersi dell’azione sulla scena. Ora, Gluck – assai più di Calzabigi che sarebbe il teorico della “riforma” – si propone di costruire un’azione teatrale nella quale la musica si assuma il compito di realizzare musicalmente l’intera evoluzione della vicenda. L’abolizione del basso continuo che sostiene i recitativi, affidandone la realizzazione all’intera orchestra permette una continuità sonora che il melodramma “serio” non prevedeva. Non tanto per il distacco tra orchestra e sostegno del recitativo affidato al solo cembalo doppiato da una strumento ad arco, di solito il violoncello, o anche la viola da gamba, e nei primi tempi anche una tiorba, perché poi c’erano arie sostenute anche dallo stesso organico, le arie col basso, quanto perché l’orchestra si assume il ruolo di guida drammaturgica, e in tal senso le “pantomime”, episodi danzati, inseriti nell’azione, funzionano proprio a integrazione di un percorso sonoro che intenda far percepire l’orchestra come per così dire cordone ombelicale di tutta l’opera, elemento fondante della drammaturgia. La danza, quindi, interviene nell’azione, come fattore drammaturgico e non più come elemento decorativo. Questo aspetto è quello più lucidamente messo in evidenza da Cherkaoui nella costruzione dello spettacolo. I gesti del coro s’integrano con naturalezza alle voci che cantano e tutta la rappresentazione diventa una splendida sintesi dei fattori che la costruiscono, testo poetico, recitazione, canto, danza, senza privilegiarne nessuno. Se ne facciano una ragione i melomani e quanti pensano che l’ascolto privato, da un cd, di questa musica, la faccia apprezzare meglio della sua visione e ascolto sulla scena. L’ascolto senza la visione della scena è un approccio mutilato dell’opera. Perché questa musica non nasce, non è composta per essere solo ascoltata, ma per essere ascoltata in una rappresentazione. Il compositore, ogni compositore, sa benissimo che non si scrive nello stesso modo una musica per quartetto d’archi e una musica per la scena.
Alceste, Marina Viotti, Admeto, Juan Francisco Gatell, ed Ercole, Luca Tittoto
E qui va inserita un’altra riflessione. Come spunto, per una digressione più ampia. La musica come la poesia la pittura la scultura, insomma tutta l’arte, conosce diversi livelli di spessore estetico e culturale, dal più semplice al più complesso. Sbagliato è considerare la differenza di livelli differenza di valore estetico, ma ugualmente sbagliato è equipararli. Un canto popolare, una canzone riuscita, “pop” o di quella che si chiama impropriamente musica “leggera” (come se l’altra fosse “pesante”) possono toccare livelli altissimi di bellezza. Ma non possono arrivare alla complessità anche di un breve Lied di Schubert o di una chanson di Debussy. Questo si vuole dire quando si distingue – e giustamente – la musica popolare dalla musica d’intrattenimento o di consumo o pop: anche qui per un diverso livello di complessità, la tradizione che produce un canto popolare è infinitamente più complessa e “lunga” della tradizione di un cantautore, di uno chansonnier, o degli stessi Beatles. E lo scrive uno che adora Jacques Brell e Barbara, Ma si provi ad ascoltare un fado portoghese e poi una canzone dei Beatles: la diversità di spessore del messaggio che comunicano è immensa. Questo per dire che quando ci si confronta con una musica – o una poesia, un romanzo, un quadro, uno spettacolo teatrale – bisogna sempre tenere presente il livello dell’elaborazione. Un’opera, intendo musicale e teatrale, non è né un quartetto né una sinfonia e nemmeno un oratorio, anche se può assomigliargli. Ma non è nemmeno una canzone pop o una musica d’intrattenimento. Non perché sia un genere superiore, ma perché è un genere diverso. E così, anche all’interno dello stesso genere, la musica cosiddetta classica o dotta (come se l’altra fosse ignorante!) la musica teatrale non è come la musica “assoluta”. E anche su quest’altro termine ci sarebbe da discutere. Ma il discorso ci porterebbe troppo lontano. Consiglio vivamente, perciò, a chi possa farlo, di andare a vedere e ascoltare questa Alceste. Lo spettacolo, oltre a offrire un godimento teatrale e musicale straordinario, susciterà, ne sono certo, più di un spunto sulla natura dell’arte, che è tra le più complesse, intricate, e in fondo anche controverse, che si possano immaginare. Come sempre, ogni semplificazione, anche qui, è fuorviante.
Admeto, Juan Francisco Gatell, Alceste, Marina Viotti