La scrittura di Ugo Barbara è elegante, essenziale nella sua capacità di arrivare al cuore delle storie e comunicarle al lettore così come sono, con le loro trame avvincenti e ricche di dettagli, molto documentate ma senza fronzoli e senza inutili trucchi, e soprattutto basate su personaggi che restano nel cuore. Laureato in Lettere Moderne all’Università di Palermo, Ugo Barbara ha insegnato scrittura creativa all’Università La Sapienza di Roma e a Roma Tre. Ha scritto sei romanzi, di cui cinque sono stati pubblicati da Piemme: “Desidero informarla che le abbiamo trovato un cuore” (1999); “La notte dei sospetti” (2001); “Il corruttore” (2008), “In terra consacrata” (2009) e “Le mani sugli occhi” (2011). Il sesto è “Due Madri” pubblicato nel 2015 da Frassinelli. È sceneggiatore del film “Gli angeli di Borsellino” insieme a Paolo Zucca, Mirco Da Lio e Massimo Di Martino, e autore del “Dongiovanni”, portato in scena nel 1999 al Teatro Libero di Palermo, per la regia di Lia Chiappara.
In “Due madri”, con il perfetto intreccio della duplice narrazione delle vite di due donne che lottano disperatamente per i loro figli, situate in tempi e spazi completamente diversi – quella di Stella, ambientata in Italia ai tempi della Seconda guerra mondiale, e quella di Olga, collocata in Argentina ai tempi della dittatura di Jorge Rafael Videla – riesci a creare nel lettore la suspense di un thriller storico. Come nasce questa idea?
Ho cullato a lungo questa storia. Prima – molti anni fa, ben prima che scrivessi il mio primo romanzo – è stata un racconto e anche se ho sempre sentito il desiderio di trasformarla in qualcosa che avesse un respiro più ampio, non era ancora abbastanza matura. Quando parlo di maturità penso alla consapevolezza che, come autore, avevo di quella storia, degli eventi che vi sono narrati, dei conflitti che racconta. Confesso che quella di Stella e quella di Olga sono storie nate separatamente. Quasi uno spin-off l’una dell’altra. Quella che è venuta prima – per ragioni affettive e perché mi è molto vicina – è la storia di Stella. Quando vi ho messo la parola fine, avevo davanti a me un romanzo breve e intenso che però mi lasciava un senso di incompiutezza. Era come se, con quella storia, avessi cominciato a tracciare un cerchio che non avevo chiuso. E poiché tutte le storie sono portate avanti da un personaggio, era a un personaggio che dovevo affidare la chiusura di quel cerchio, anche trasportandolo in un altro tempo e in un altro luogo.
In quale misura la tua storia personale e quelle della tua famiglia emergono dal romanzo?
L’origine di ”Due Madri” è in una storia che ho sentito raccontare per anni da mio padre. Durante la Guerra, mio padre si era ammalato di tifo e mia nonna, non sapendo cosa fare, era andata a cercare aiuto in un ospedale militare tedesco. I nazisti in rotta avevano ben altri pensieri e la cacciarono in malo modo. Mia nonna, però, non era tipo da arrendersi facilmente, specie se c’era di mezzo uno dei suoi figli, così era tornata a casa, aveva preso un mitra e due bombe a mano (all’epoca le armi abbandonate abbondavano) ed era tornata nell’ospedale da campo per rapire un medico e portarlo a visitare suo figlio. Quando aveva “riaccompagnato” il medico alla base, era stata arrestata e stava per essere messa al muro quando era stata salvata dal provvidenziale intervento di un ufficiale amico di mio nonno. Oltre a questo episodio, che ha ispirato il romanzo, “Due Madri” è pieno di racconti più o meno avventurosi che mio padre e mio zio mi facevano della guerra. Ma solo loro: mia nonna, che non l’aveva vissuta come un’avventura, ma come una monumentale tragedia, non ne parlava mai volentieri.
Nel processo di scrittura, nel maneggiare qualcosa che ci tocca comunque da vicino perché riguarda la nostra storia familiare, occorre prendere le distanze e cercare di mantenersi neutrali oppure lasciarsi andare e far fluire racconti e sentimenti, insieme ai fatti?
Ho voluto raccontare una storia che coinvolgesse emotivamente i lettori, così come i racconti che ascoltavo da bambino mi emozionavano e appassionavano. Non avevo alcuna intenzione di mantenere le distanze: non mi trovavo a fare da biografo a mia nonna o a mio padre; non volevo essere un freddo specchio delle loro vicende, ma un amplificatore di emozioni. Se ci sono riuscito, è proprio perché mi sono lasciato andare al racconto così come mi abbandonavo alle parole che ascoltavo. Ci sono voluti anni – molti anni – perché trovassi il tempo, il tono e la misura giusta per raccontare questa storia, ma sono felice di aver trovato nell’incontro tra le vicende di Stella e quelle di Olga il modo di farlo.
Nel tuo racconto la documentazione storica è un elemento vivo della narrazione. Quali sono gli strumenti necessari per affrontare un lavoro di ricerca e documentazione come quello che sta alla base di un romanzo come “Due madri”, ambientato in due nazioni e in due periodi storici così diversi?
Qualunque storia si scelga di raccontare bisogna puntare innanzitutto alla credibilità. Persino se si racconta una storia di fantascienza o un fantasy, bisogna rendere la storia verosimile e per farlo bisogna documentarsi in modo rigoroso, che si tratti di studi scientifici o cicli mitologici. I racconti familiari cui ho attinto per “Due Madri” erano intrisi di particolari che venivano dalla memoria di due bambini in tempo di guerra e che dovevano essere ponderati e verificati. Le pagine che raccontano di Stella sono immerse nella vita quotidiana di un paesino del centro Italia negli anni ’40 e c’era un’infinità di dettagli che potevano essere falsati da ricordi vecchi di decenni. Per questo ho chiesto aiuto a uno scrittore straordinario, Paolo Casadio, che in un bellissimo libro, “La quarta estate” racconta proprio di quegli anni con dovizia di particolari appassionanti. E’ stato così gentile da suggerirmi quelle piccole modifiche che aiutano a ricostruire l’atmosfera di un tempo che non abbiamo vissuto, ma che ci appartiene come se ne fossimo stati testimoni. Il dramma dell’Argentina tra gli anni Settanta e Ottanta è in qualche modo appartenuto alla mia generazione che ha sempre sentito vicine la lotta politica, la tragedia dei desaparecidos e la disperazione delle nonne di Plaza de Mayo; il materiale su quegli anni, sebbene frammentato e a volte contraddittorio, abbonda. Ricostruire l’ambiente in cui si muove Olga non è stato difficile, ma non meno doloroso.
Il mistero dell’omicidio di Idèo, narrato nelle prime pagine e che farà parte della narrazione di Stella, da una parte evidenzia un uso magistrale delle “anticipazioni” e dall’altra rappresenta una storia che tuttora tocca le ferite rimaste aperte di molti italiani, rendendo il senso dello scontro ideologico e bellico vissuto dai nostri nonni e genitori. Come hanno accolto i lettori la tua narrazione di quel conflitto ancora oggi così attuale?
Mi aspettavo che il ritratto che ho fatto dei partigiani in “Due Madri” avrebbe fatto storcere il naso a qualcuno. Sono passati più di dieci anni da quando Pansa con “Il sangue dei vinti” affrontò il tema della mitologia della guerra partigiana, ma basta ripensare a “Il sentiero dei nidi di ragno” di Calvino o a “Partigiano Johnny” di Fenoglio per trovare i germogli di quel dibattito che ormai non è più un tabù. Pensare e dire che la guerra partigiana fu condotta solo da uomini giusti, con metodi giusti e soprattutto sempre con giuste motivazioni significa cedere alla tentazione di ammantare la storia di un velo di purezza che non ha mai, di qualunque parte in gioco si stia parlando. Mio zio, catturato dalle SS durate un rastrellamento a Venezia, era solito dirmi: “Si crede che i tedeschi non facessero altro che urlare, spintonare, picchiare e sparare. Beh, era proprio così”. Ma nei suoi racconti e in quelli di mio padre ci sono anche uomini della Wermacht che volevano solo tornare dalle loro famiglie e che, prima di disertare, trovavano il tempo di regalare a un bambino italiano il cestino della bicicletta che tanto ammirava. Così come ci sono partigiani incapaci di mostrare pietà in nessuna condizione. Ho incontrato persone indispettite da alcuni aspetti del racconto, ma mai nessuno che mi abbia detto: “È falso, le cose non sono andate così.”
La storia di Olga, ambientata in Argentina, è il ritratto di una donna che non si occupa di politica, tenuta all’oscuro delle attività contrarie alla dittatura di Videla svolte dal marito, che si trova improvvisamente a dover fuggire con suo figlio letteralmente in capo al mondo, sulla base di un semplice biglietto scritto dall’uomo che ama, mentre intorno a lei si scatena la peggiore repressione militare, che porta tra il 1976 e il 1983 alla distruzione di un’intera generazione. Questo evento sconvolge la sua vita in tutti i sensi. Quali aspetti della storia dell’Argentina di quegli anni hai scelto di raccontare e qual è stato il tuo rapporto di scrittore con questo personaggio così delicato e affascinante, calato in una storia così orribile?
La storia della repressione del regime di Videla è la stessa vissuta da migliaia di giovani in pratica in ogni Paese dell’America Latina, ma anche in Grecia e in Spagna negli anni del dopoguerra. La storia contemporanea ci ha regalato icone da piangere e ammirare, ma quasi mai ci racconta come il loro sacrificio sia stato vissuto da chi li amava. Mogli, madri, sorelle, figli che si ritrovavano soli, che in qualche modo si sentivano abbandonati, forse addirittura traditi da quanti alla lotta per gli affetti avevano anteposto la lotta politica. Non bisogna pensare che fossero tutti pronti a essere investiti, sopravvivendovi, da quel martirio. Olga è a suo modo una donna innocente. “Sono già madre, moglie e operaia” dice “non ho tempo di occuparmi di politica”. Non vuole essere coinvolta in qualcosa che per certi versi non capisce e per altri non le interessa, eppure ne viene travolta. Il suo impegno, a quel punto, è a non perdere la propria umanità di fronte all’infuriare degli eventi. La storia di Olga è più universale di quella di suo marito e credo sia più vicina al lettore di quanto lo potrà mai essere quella di un martire votato al sacrificio per la causa in cui crede.
Stella racconta la sua storia nel corso di una confessione priva di pentimento, una confessione sollecitata dal nuovo parroco, quasi estorta a quell’anziana signora che non manca una messa ma non si avvicina mai al sacramento della comunione. Una perfetta metafora dei tanti peccati troppo difficili da raccontare, persino in confessione, che molti hanno commesso in quei terribili anni. Stella non è pentita, non fa la morale e non insegna: semplicemente racconta. Qual è il messaggio che Stella può ancora trasmettere a tutti noi?
Stella racconta perché la sua storia sia di esempio. Non cerca assoluzione perché non è pentita. Non è convinta di aver fatto la cosa giusta: semplicemente ha fatto l’unica cosa che le sembrava possibile. Anche se non sente di avere qualcosa di cui pentirsi, tuttavia è pienamente consapevole della gravità del suo gesto. Sa di aver peccato, ma attraverso il racconto del suo peccato non cerca una giustificazione per sé, quanto piuttosto comprensione per quanti, nelle sue stesse condizioni, hanno fatto la stessa scelta, ritenendola inevitabile. Il messaggio che Stella affida al parroco è quello che vorrebbe consegnare alla coscienza collettiva: giudicare è umano, comprendere è divino.
Le due protagoniste, dopo aver perso i rispettivi mariti, si sentono attratte da due uomini “accomunati” dall’impossibilità di comunicare: Stella di Erwin, che parla solo tedesco, e Olga di Federico, che non sa cosa prova per lei perché ancora innamorato di sua moglie. Ma è proprio questa difficoltà comunicativa a dare vita ad alcune delle pagine più cariche di emozioni e sentimenti: come si può raccontare l’indicibile come fai tu, e renderlo protagonista?
Quello che non viene espresso a parole è di solito ciò che ha più forza. Ho sempre creduto molto, moltissimo nel dialogo e per questo nei miei romanzi i personaggi sono spesso molto verbosi. Ma il tempo narrato in “Due Madri” è soprattutto il tempo dei silenzi. Nella vita che Stella conduce nel suo piccolo paese, i gesti e gli sguardi contano e servono molto più delle parole. Alle parole sono affidate le cerimoniosità e la ritualità. Alla gestualità, invece, è consegnata la parte più intima e vera. Per questo, in una situazione in cui Stella e Erwin non possono letteralmente comprendersi con la parola, l’unico modo per comunicare è attraverso i gesti. Ed è così che riscoprono una sorta di linguaggio primitivo, quasi primordiale, che supera le barriere linguistiche e dà voce a quanto di più autentico c’è nelle loro anime: ai sentimenti e alle emozioni. Allo stesso modo l’intesa tra Olga e Federico è fatta di piccoli gesti che entrano a fare parte della loro quotidianità, di una quotidianità che non gli appartiene e non deve appartenergli perché caduca come caduca è l’illusione che possa esistere un mondo altro da quello al quale sono legati: Olga con Miguel e Federico con Linda. L’equilibrio tra Stella ed Erwin e tra Federico e Olga è delicato come un cristallo che una parola di troppo o una parola sbagliata può infrangere. Ed è attraverso la gestualità che si stabilisce un contatto in grado di rispettare questo equilibrio e, quindi, di arrivare al lettore a livello emotivo ed emozionale, prima ancora che con la verbosità delle parole.
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