La morte della Pizia di Friedrich Dürrenmatt è un racconto che rievoca i riti, e le malefatte, dell’antico oracolo di Delfi. Ma con un occhio moderno, disincantato. Sembra un commento o un ampliamento dell’osservazione che Giocasta, nell’Edipo Re di Sofocle, fa al marito e figlio, sulla credibilità degli oracoli. E prima ancora della professata ignoranza di Edipo, che si dichiara estraneo ai fatti. Ironia tragica, e sublime: entrambi, la madre e il figlio, ignorano che invece l’oracolo ha predetto il vero e si è realizzato. Sono proprio le parole di Giocasta, che vorrebbero rassicurarlo, a spaventare invece Edipo e a fargli intravedere l’orrore in cui è precipitato.
Hofmannsthal, all’inizio del Novecento, aveva rivisitato anche lui il mito di Edipo e della Sfinge, come aveva fatto per l’Elektra da Sofocle e per da La vida es sueño di Calderón de la Barca scrivendo il dramma La torre. Gli scrittori e poeti moderni non fanno, dunque, che accentuare la problematicità, l’inafferrabilità della storia dettata dal mito e dal teatro del passato. Dürrenmatt, spiato dalla polizia elvetica, come scrittore incomodo e pericoloso, perché troppo compromesso con le idee di sinistra – inseme a lui, in quegli anni, gli agenti svizzeri controllavano altre 800.000 persone – allarga il dubbio all’intera nostra capacità d’interpretare, e prima ancora, di conoscere la storia. La Pizia, Pannichis (Παννυχίς, tutta la notte, ancella e compagna di Afrodite) la profetessa Undecima dell’Oracolo di Delfi, seduta sul tripode vede le ombre delle sue profezie, e ciascuna le propone una versione diversa della vicenda di Edipo. La domanda che si pone all’uomo di oggi – ma è antica quanto forse l’apparizione dell’homo sapiens (che sarei piuttosto incline a denominarlo insipiens, e l’antica saggezza presocratica, chi sa, sarebbe anche d’accordo: “sappiamo dire molte bugie che sembrano verità, ma anche molte verità che sembrano bugie”, dicono le Muse a Esiodo nella Teogonia) – è una domanda alla quale non abbiamo risposta: che cosa è la Verità? La pone anche Ponzio Pilato a Gesù, e Gesù non risponde, o perché dovrebbe rispondere con una scrollata di spalle, o perché quella scrollata di spalle è proprio Pilato che l’ha fatta mentre pronunciava la domanda. Come a dire: che ne sappiamo noi uomini, della verità? Bulgakov, nel Maestro e Margherita, sembra propendere per questa ipotesi. Insomma, il breve, ma densissimo racconto di Dürrenmatt affonda in una lunga tradizione, e la domanda inevasa acquista nelle sue parole tutta l’ironia di un disincantato filosofo scettico del Novecento. Ma non è detto, perché in fondo la stessa domanda c’interroga già dalle pagine delle Briciole di filosofia di Kirkegaard: l’idea, profondamente socratica, che la conoscenza, la verità, possa essere insegnata afferma il filosofo danese, è fondamentalmente, irrecuperabilmente infondata. Vivere non è conoscere, ma qualcosa di informe, d’irrisolto, di inafferrabile, che è spiegato solo dallo stesso atto di vivere, non da altro. La Ragione è sconfitta non perché non sia in grado di distinguere il vero dal falso, ma perché resta alla superficie, a ciò che appare, e non affonda nel caos originario della vita, da cui la vita stessa è generata e con essa la sua verità di esistere. La narrativa e il teatro di lingua tedesca, come l’esperienza poetica greca, fin dalle loro origini, non si sono mai nascoste l’irrisolvibilità della domanda sul senso e sul perché dell’esistere. Il percorso può cominciare con il Parzifal di Wolfram von Eschenbach e proseguire con il Faust goethiano fino alla Montagna incantata di Thomas Mann e ai giorni nostri con Handke e Böll e Grass. Dürrenmatt s’inserisce in questo percorso.
Patrizia La Fonte e Irene Lösch dal racconto di Dürrenmatt hanno tratto una scrittura teatrale che è andata in scena con la regia di Giuseppe Marini, e che ha ottenuto, a Sirolo, il premio Nazionale Franco Enriquez come migliore regia dell’anno. Meritatissimo. Io ho visto lo spettacolo al Teatro Arcobaleno di Roma. È in scena fino al 24 novembre. Chi vive a Roma, o può facilmente recarvisi, non se lo perda.
Intanto per la geniale ripresa di un sistema di organizzazione della distribuzione dei ruoli tipica del teatro antico, ma anche, in parte, di quello elisabettiano: pochi attori interpretano tutti i personaggi dell’azione drammatica. In questo caso addirittura solo due, la stessa Patrizia La Fonte, che veste i panni della Pizia, di Giocasta e della Sfinge, e Maurizio Palladino quelli di Merops, Edipo, Tiresia. Sofocle introdusse, come si sa, un terzo attore, ma per la drammaturgia della Morte della Pizia ne bastano due, non ci sono mai sulla scena, infatti, più di due personaggi. Il travestimento avviene quasi sotto gli occhi del pubblico, ed è stupefacente come un mantello, un capello dalle ampie falde, un soprabito possano bastare a mutare la configurazione di un personaggio. Ma ancora più avvincente è l’uso della voce, e perfino della tecnica di modificarla con un’amplificazione. Gli attori usano ora l’uno ora l’altro modo per trasformare la propria voce a seconda delle esigenze della rappresentazione, mostrando così che l’uso dell’amplificazione, e cioè della tecnica, è solo uno dei modi di modificazione della voce, e non l’essenziale, perché l’attore, da sé, ha nella propria voce tutti gli strumenti per adattarla alla situazione scenica che vuole rappresentare e l’uso dell’amplificazione, dunque, serve a creare un diverso, e quasi soprannaturale effetto di fonazione. Lo spettacolo si segue con il fiato sospeso. La storia era nota al pubblico antico, ma è nota anche al pubblico di oggi, se a scuola si è confrontato con la letteratura classica. Informarsene, comunque, prima di andare a teatro, non fa male. Si tenga presente che tanto lo scrittore antico quanto quello contemporaneo presuppongo che il pubblico conosca la vicenda. L’antico perché porta in scena un mito della religione comunque, come se noi oggi mettessimo in scena un episodio della vita di Gesù o dei santi, cosa del resto che nel Medioevo facevano le sacre rappresentazioni, il moderno perché suppone che il pubblico condivida la sua stessa cultura. Qualcuno ha voluto vedere nel racconto di Dürrenmatt qualcosa di analogo a ciò che Kurosawa mostra nel film Rashomon. Anche lì la verità dei fatti cambia a seconda di chi la racconta, e soprattutto di chi la interroga. Come se interrogare predisponesse già a una risposta, anzi la contenesse prefigurata nella stessa interrogazione. Di chi è figlio Edipo? e quale padre o non padre uccide? con quale madre o madre di chi si accoppia? e quanti sono i pretendenti al suo potere, prima, insieme e dopo di lui? la stessa madre sa chi è lui, e se lo sa, perché tace, perché si uccide, o viene uccisa? Domande che non hanno risposta, già in Sofocle.
Βλέποντα νῦν μὲν ὄρθ᾿, ἔπειτα δὲ σκότον, dice Tiresia a Edipo, ora vedi benissimo, ma dopo vedrai il buio. Sembra un vaticinio, è una verità: Edipo si caverà gli occhi. In Sofocle è la punizione di una hybris, Edipo che crede di vedere tutto, di provvedere a tutto, di sapere tutto, non vede niente, non è capace di provvedere ad alcunché, non sa niente. L’oracolo di Delfi ingiungeva di conoscersi: Γνώτι σεαυτόν, conosci te stesso, ma non significa ciò che pensiamo noi, oggi, conoscersi di che cosa siamo capaci, quale sia la nostra natura, chi siamo, insomma, o lo significa in un senso molto particolare: conosci quali siano i tuoi limiti, conosci chi sei, un effimero, creatura di un giorno (questo significa effimero), sei uno che morrà, la conoscenza della realtà ti è interdetta, perché sei troppo limitato per abbracciarla, sei solo una parte di un tutto che ti è e ti resterà sempre ignoto, sei, come canta Pindaro, “il sogno di un’ombra”.
A questa conoscenza, che il pubblico antico già percepiva nelle parole degli attori, il pubblico di oggi aggiunge una più terribile percezione: l’incertezza del suo stesso esistere, la cecità del futuro, l’angoscia di minacce, naturali e umane – il cambiamento climatico, le guerre che si scatenano in diverse parti del pianeta – che nessuna speranza d’intervento potrà mutare o quanto meno confortare. Il mito – come avevano ben capito i tragici greci e i drammaturghi del Nô giapponese – ci raffigura questo quadro del nostro esistere, c’invita, non a modificarlo, ma, piuttosto che accettarlo supinamente, a comprenderne le ragioni, le motivazioni, ad apprenderne una lezione di umiltà e di ridimensionamento del nostro spropositato orgoglio di umani. Come scrive bene un nostro grande poeta, Giuseppe Ungaretti:
Si sta
come d’autunno
sugli alberi
le foglie.
Al di sopra di qualunque elogio la multiformità, la varietà, la penetrazione con cui Patrizia La Fonte e Maurizio Palladino trasmettono questa inafferrabilità del vivere con infinite sfumature del tono della voce, con la perfetta padronanza del gesto, mai realistico, ma sempre significante, nella sua semplicità sembrano non solo perfette, ma iniziatiche, come un predisporre alla conoscenza di qualcosa di meno appariscente della realtà in cui supponiamo di vivere. Rese ancora più incisivi, gesti e parole, dalle musiche efficacissime, e drammaturgicamente appropriate di Paolo Coletta. Bello l’impatto della scena di Alessandro Chiti, con la figura del volto di una statua greca dal cui occhio cola sangue. E belli i costumi di Helga H. Williams, misteriose, puntuali, inquietanti le luci di Alessandro Greco. Un teatro del fondo oscuro di noi tutti, uno specchio in cui le parole dell’attore ci obbligano a guardarci e la visione di ciò che vediamo non è motivo di orgoglio, quanto, piuttosto, di ridimensionamento, come si è detto, del nostro crederci padroni di un mondo, che nella realtà non conosciamo. E si esce dal teatro non già mortificati, ma anzi sollevati da quel peso di superbia che arrugginisce le nostre azioni, per interrogarci, più realisticamente, sul vero significato del nostro stare al mondo, del nostro essere quelle minuscole particelle animali di un regno di viventi, di cui siamo piccolissima parte, e riconciliarci quindi con un divenire che non possiamo regolare, ma da cui siamo guidati e travolti. Troppo pessimistico? Ma nè l’ottimismo né il pessimismo colgono la realtà del mondo. Il mondo è, né buono né cattivo: come scrive Leopardi, non si accorge di noi che quando lo devastiamo, e come ci suggerisce il coro finale dell’Edipo Re, noi siamo soprattutto inconsapevoli dei nostri destini: