Robert Schumann scrive che i valzer di Chopin sono una sorta di idealizzazione della danza, che nascono per essere suonati, non danzati, o se mai danzati da contesse e principesse. Si ha la stessa impressione ascoltando le polonoisen (sic! nel manoscritto e nelle prime edizioni, polacche) di Wilhelm Friedemann Bach, il primo figlio di Johann Sebastian, il prediletto, la cui fama fu oscurata e in parte lo è ancora dalla fama di due altri figli di Johann Sebastian: Carl Philipp Emanuel, anche lui nato dalla prima moglie Maria Barbara, e Johann Christian, nato dalla seconda moglie, Anna Magdalena. Ma Friede, come Wilhelm Fridemann veniva chiamato a casa e dagli amici, non aveva bisogno di aspettare Chopin, il quale tuttavia, più di mezzo secolo dopo, respirava a Varsavia un vero e proprio culto per Bach: l’allievo e amico di Johann Sebastian, infatti, Lorenz Christoph Mizler von Kolof, fondatore, insieme a Georg Heinrich Bümler e a Giacomo de Lucchesini della Correspondierende Societät der musicalischen Wissenschaften (società per corrispondenza di scienze musicali), per la quale Johann Sebastian compose l’Arte della fuga, nel 1749 si era trasferito a Varsavia, dove mutò il proprio nome in Wawrzyniec Mitzler de Kolof. Józef Elsner, che ne fu in qualche modo il continuatore, educò poi l’allievo Chopin a quest’ammirazione per il Kantor di Lipsia. E della fantasia malinconica di Friede qualcosa sembra davvero essersi infiltrato nelle polonaises di Chopin, soprattutto nella Polonaise Fantaisie op. 61. Ma Friede attingeva altrove. Alle danze delle suite e delle partite di suo padre dei suoi contemporanei, non escluso il grandissimo Couperin. Firede attingeva alle danze del Klavierbüchlein (Piccolo libro di esercizi per tastiera) per lui organizzato dal padre. O alle Suites Francesi, Inglesi, alle Partite del grande e incombente padre. Basterebbe ascoltare l’Allemande della Quarta Partita o le Polonoisen (sic!) del Büchlein per Anna Magdalena del 1725 (due sono però di Carl Philipp Emanuel, ancora bambino, e una tratta da una sonata di Hasse). La moda della musica polacca veniva dalla Francia e dai suoi storici rapporti con la corona polacca. Ma Friede va oltre la stilizzatissima rielaborazione del padre, del fratello e degli altri musicisti del tempo. L’originalità del sua scrittura non passò inosservata. Così come l’idea di pubblicare una raccolta di diversi esempi di un’unica danza, anticipando le successive raccolte di valzer schubertiane e le raccolte chopiniane di valzer, di mazurke e di polacche. Nasceva il brano pianistico da salotto, d’intrattenimento. E che la destinazione non fosse solo per la tastiera clavicembalista, ma anche per il nuovo strumento che l’avrebbe soppiantato si può supporre dalla data di composizione: 1765. La prima edizione, Peters, è tuttavia del 1819 e l’indicazione “für das Pianoforte” fa dunque riferimento all’uso del tempo.
Frontespizio della prima edizione, 1819, curata Johann Nikolaus Forkel, il fondatore degli studi bachiani e della moderna musicologia
In ogni caso, almeno fino al primo ottocento l’uso di uno strumento o dell’altro era affidata alla disponibilità degli strumenti. La scrittura serba molti tratti dell’ornamentazione clavicembalistica, ma sembra trovare una sua definitiva destinazione nella ricerca di un fraseggiare espressivo che il tocco di una tastiera che agisse sulla percussione a martelli delle corde piuttosto che sul pizzico indubbiamente esalta. Che i compositori sentissero il bisogno di uno strumento a tastiera capace di riprodurre gli effetti dinamici degli archi e dei fiati e delle voci percorre tutta la storia della musica per tastiera del secolo XVIII. Domenico Scarlatti colloca improvvisamente accordi dissonanti di più suoni, apparentemente slegati dalla condotta armonica, proprio per ottenere il contrasto di piano e forte. Cosa che nella sua edizione Alessandro Longo non comprende, introducendo perciò correzioni dei supposti errori di armonia. Dopo gli anni ’60 il pianoforte settecentesco – quello che noi oggi chiamiamo fortepiano – si assume anche il compito di realizzare in orchestra e nella musica da camera il basso continuo, quando è a disposizione. Nelle sue sonate di questo periodo, Haydn, per esempio, segna indicazioni di “crescendo“, irrealizzabili su un clavicembalo (vedi la bellissima sonata in do minore del 1771). Il pianista di questa registrazione, Giancarlo Simonacci, opta per questa scelta. Non solo, ma mette bene in evidenza quanto l’arte dell’improvvisazione influisse sulla scrittura. E allora ecco che la fluidità del fraseggiare e la varietà del tocco sembrano restituirci il piacere che sicuramente gli ascoltatori del tardo settecento provavano all’ascolto delle improvvisazioni di Fride, improvvisazioni che lo avevano reso famoso in tutta Europa. Peccato che la fragilità nervosa del compositore – fragilità che sembra colpire molti figli di Johann Sebastian, qualcuno in modo assai grave – lo condusse a trascorrere gli ultimi anni in miseria, e malato. Ciò che più colpisce è l’imprevedibilità ritmica della danza, che dovrebbe invece prevedere, come qualsiasi danza, una scansione regolare. Ma la scansione della danza, in effetti, c’è. Solo che Fride la sommerge con una serie originalissima e sempre varia d’invenzioni melodiche e proprio dalla tensione dunque tra la scansione regolare imposta dal ritmo della danza e la ridondante variabilità delle improvvisazioni e fioriture melodiche che l’arricchiscono nasce il fascino di queste pagine. Sta qui il punto: ciò che sembra una deviazione, un eccesso, un capriccio che rischia di indebolire se non addirittura di soppiantare il ritmo della danza, in realtà lo rinforza, lo ribadisce, ne amplia a dismisura il raggio di azione. Sono pagine geniali, e Simonacci vi entra dentro con capillare intelligenza, ne restituisce con gusto finissimo la incantevole seduzione, il magistrale dominio. Incisioni come questa inducono a feconde riflessioni: generalmente si ha un’idea stereotipata del Settecento, di parrucche incipriate, di convenevoli galanti, di leggerezza libertina e in fondo cinica (magari ne fossimo oggi noi capaci!). Un secolo che non conoscerebbe le emozioni e tanto meno le passioni, che sottometterebbe tutto al controllo di una gelida razionalità. Subordinerebbe, inoltre, la serietà della vita al divertimento. Chi professa stereotipi simili dovrebbe poi spiegarci come mai questo secolo frivolo e superficiale si concluda con la rivoluzione intellettuale, politica, sociale più importante di tutta la storia di Europa. Mozart e Beethoven, inoltre, nascono da questo secolo. E così pure Goya e Delacroix. In questo secolo viene finalmente ribadito che un diritto non è qualcosa che si conceda ai popoli, agli individui, da parte di un potere che presume agire in nome di tutti, se non addirittura di Dio, ma qualcosa che c’è in natura, qualcosa che si può reprimere, soffocare, ma che comunque esiste ed esiste in ciascuno di noi. Non solo, ma si afferma che il diritto di qualcuno, se riconosciuto, non diminuisce affatto il diritto di qualcun altro, come credevano quelli che ritenevano che concedere diritti alle popolazioni venute dall’Africa diminuisse i diritti tradizionali degli europei e dei discendenti degli europei, bensì, più semplicemente si riconosceva, e si riconosce, che i diritti di tutti convivono, che tutti cioè hanno uguali diritti. Il che non significa che tutti sono uguali, una donna non è un uomo, un europeo non è un cinese, ma la donna, il cinese hanno gli stessi diritti dell’uomo e dell’europeo. Questi pensieri sembrano averci condotti lontano dalla musica di Wilhelm Fridemann Bach, ma non è così, perché la libertà con cui Friede tratta la danza, ne estrae spiriti insospettati, meraviglie accattivanti che non s’immaginava potessero albergarvi, è lo stesso sentimento di libertà che mosse alcuni parigini a liberare i prigionieri politici della Bastiglia. Vittorio Alfieri, che allora viveva a Parigi buttò giù una canzone che intitolò Parigi sbastigliata e la dedicò al “cittadino” Giorgio Washington, il liberatore delle colonie americane. Ecco, queste danze c’insegnano che non serve attaccare manifesti, proclamare slogan, perché si affermino le idee di libertà, uguaglianza e fratellanza, queste idee innervano il processo stesso della scrittura, perché colgono da un modello inerte, tradizionale, la potenzialità di uno sviluppo impreveduto. Ed è questo sviluppo, la libertà mentale di questo sviluppo, a imprimere alla danza un nuovo marchio identitario, il riconoscimento che la danza si fa arte perché scopre la sua libertà d’inventarsi. Da Arcangelo Corelli a Mozart e a Beethoven, via Johann Sebastian Bach, Handel, Haydn, Pergolesi, Cimarosa, e infine Beethoven, il secolo XVIII costruisce via via gli strumenti, politici, sociali, economici, artistici, intellettuali, con cui la libertà costruisce una nuova idea di società, di cultura, di politica. Senza questo ampio quadro di rivolgimenti non esisterebbero nemmeno le gradevoli, bellissime polonoisen di Wilhelm Fridemann Bach, che Giancarlo Simonacci ci restituisce con così accurata fantasia e così innamorata felicità interpretativa in questa registrazione. Integrano le dodici polacche due minuetti, una bourrée e un allegro la cui attribuzione a Friede non è certa, ma il fatto che assomiglino alla sua scrittura denota quanto questa idea di giocare liberamente con la tastiera di un pianoforte (o di un clavicembalo) fosse diffusa, fosse patrimonio comune.
In margine: due precisazioni. È luogo comune ritenere che l’illuminismo abbia impostato una visione razionalistica della realtà, sottomettendo l’inconoscibile, l’irrazionale al predominio di una visione chiara e distinta, razionalistica, appunto, delle cose, senza lasciare spazio all’indeterminato, all’inconoscibile, all’irrazionale. Una simile lettura dell’illuminismo dovrebbe poi spiegarci le sfumature già impressionistiche di certa pittura francese e inglese, di Watteau o di Reynolds, per esempio. L’ambiguità, che Goethe definì “demoniaca” della musica di Mozart, e l’irrazionale che percorre tutta l’opera di Goethe fino a quell’enigmatico romanzo che sono Le affinità elettive. Quanto alla musica del secolo, vero che nella prima parte predomina il lavoro contrappuntistico (ma non scompare nemmeno nel periodo galante), vero però anche che al contrappunto si affidano spesso zone oscure dell’animo, come gli urli della folla che vuole crocifisso Gesù, nella Passione secondo San Matteo di Bach, la quiete delle tenebre nell’Israele in Egitto di Handel. O il crucifixus della Messa in si minore, sempre di Bach. Ma questi sono aspetti particolari. Ciò che invece salta subito anche al solo ascolto è l’enorme libertà delle relazioni armoniche, la disinvoltura con cui si smontano e si rimontano le convenzioni formali, il nuovo senso del tragico che emerge dal teatro comico: Marivaux, Goldoni, Mozart, come le forme del comico, del borghese quotidiano, sono piegate a raccontare i conflitti, i dissidi e non solo quelli sociali di una Serva padrona, ma anche quelli interiori di un Saul, di una Mirra. E prima ancora il Maometto di Voltaire. O Les liaisons dangéreuses, La nouvelle Eloyse. E, infine, quel capolavoro distruttore che è il Don Giovannidi Mozart, che, non lo si dimentichi, è un’opera buffa. “Dramma giocoso”, il sottotitolo del libretto, è un’espressione teatrale abituale e sinonimica di commedia per musica, di opera buffa. Il senso tragico del termine “dramma” verrà dopo, è romantico, anzi successivo perfino al romanticismo: è wagneriano. È sempre pericoloso interpretare la lingua del passato con le accezioni della lingua di oggi. Le parole cambiano di senso. Opera buffa, commedia per musica, dramma giocoso indicavano non tanto il contenuto comico del soggetto, quanto le forme letterarie e musicali adottate. Comico, tra l’altro, era sinonimo di attore. I comici sono gli attori, comica è l’attrice. Le due “Comiche” della Locandiera di Goldoni,Ortensia e Deianira, sono due attrici, anzi due cantanti attrici di melodramma. Che venivano chiamate, appunto, comiche, non perché facessero ridere, ma perché recitavano e cantavano. Del resto in spagnolo la parola “comedia” significa rappresentazione teatrale, esattamente come la parola “play” in inglese. E in francese “opéra-comique” non è un’opera comica, ma una rappresentazione in cui gli attori cantano e parlano, i dialoghi sono parlati e non cantati come nel melodramma italiano. La Medea di Cherubini, il Fidelio di Beethoven, la Carmen di Bizet appartengono al genere dell’opéra-comique. Sì, anche il Fidelio, che non è un Singspiel, come impropriamente spesso si dice, ma un opéra-comique, proprio sul modello della Medea e delle Due giornate di Cherubini, che Beethoven ammirava. È questo continuo rinnovarsi delle forme il carattere principale del secolo. Che corrisponde alla rapida trasformazione dei costumi sociali, e all’evoluzione anzi della coscienza politica e sociale dei popoli. Rousseau non aveva scritto invano un Contratto Sociale, né la Rivoluzione steso per niente una carta dei diritti dell’uomo.
Wilhelm Fridemann Bach, Twelve Polonaises, Giancarlo Simonacci, piano. Da Vinci Classics C00856. € 10,71
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