Roman J. Israel (Denzel Washington) è un avvocato sui generis e convinto attivista per i diritti civili che, da trentasei anni, divide lo studio legale con il socio fondatore per il quale prepara, rimanendo nell’ombra, tutti i casi e le arringhe necessarie. Ma quando quest’ultimo è colpito da un letale infarto, Roman rischia di perdere il lavoro a causa dei debiti dello studio. Ad offrigli un nuovo inizio ci pensa George Pierce (Colin Farrell), brillante e giovane avvocato. Inizialmente riluttante Roman accetta e ben presto si rende conto che per far carriera è necessario arrivare a dei compromessi, anche a costo di macchiarsi le mani.
Con un passato da sceneggiatore di film non certo memorabili Dan Gilroy, classe ’59, quattro anni fa con il suo esordio dietro la macchina da presa ha sorpreso critica e pubblico con il suo Lo sciacallo – Nightcrawler che, oltre ad avere dalla sua parte un immenso Jake Gyllenhaal, ha dimostrato di essere un thriller metropolitano scritto e diretto a regola d’arte. A distanza di tempo da quel meraviglioso battesimo del fuoco, Gilroy è tornato nuovamente in veste di regista sul grande schermo con End of Justice – Nessuno è innocente (Roman J. Israel, Esq., 2017) ma questa volta – purtroppo – i risultati non sono dei migliori. Legal thriller che strizza l’occhio a un filone cinematografico da sempre in voga e che ha visto il suo acme negli anni Novanta, End of Justice non brilla per eccessiva originalità, né tantomeno per il (mancato) merito di aver provato ad introdurre novità o guizzi per rinfrescare, appunto, il genere di appartenenza.
A reggere l’intero film ci pensa il sempre carismatico e immenso Denzel Washington il quale, nell’ultima edizione degli Oscar, è stato in lista tra i migliori attori protagonisti proprio per l’interpretazione di Roman J. Israel, avvocato che non conosce il successo se non (in)direttamente mediante il suo costante e ininterrotto lavoro lontano dalle aule dei tribunali. Un legale che, piuttosto che inseguire fama e guadagni, si accontenta da più di tre decadi di una paga di cinquecento dollari a settimana, di un minuscolo appartamento permeato dai rumori di un cantiere h24 adiacente e di un look personale, nel vestiario e nella pettinatura, uscito direttamente dagli anni Settanta. Roman è un idealista, un fervente paladino dei più deboli, dei meno abbienti, un uomo/avvocato che si batte per i diritti altrui e che sfoggia fotografie e poster delle icone del black power. Ma, al tempo stesso, Roman è un soggetto atipico, fuori dai canonici schemi, una sorta di “genio” – come lo definisce il George Pierce interpretato con asciuttezza minimalista da un sempre bravo Colin Farrell – legato ancora ai metodi della vecchia scuola: niente software legali, niente email, niente archivi elettronici ma solo carta, penna e tanta volontà. Nel dipanamento delle vicende di End of Justice Gilroy è stato capace, come nel precedente Lo sciacallo, di mettere in piedi un solido background psicologico e personale del protagonista. Roman Israel con(divide), in parte, habitus e modi esistenziali con il Lou Bloom di Lo sciacallo: entrambi sono ossessionati dal proprio lavoro, dalle abitudini, dai tic e sì, anche da quella nevrosi di essere i diretti protagonisti di un’esistenza messa in secondo piano, depauperata da affetti, successi e (tanto) materialismo, elementi immancabili e fondamentali per l’uomo contemporaneo del XXI secolo. Ed è qui, in questa strutturazione caratteriale che End of Justice gioca la sua carta migliore, ovvero quella che prevede il mutamento sociale nel momento in cui, per tutta una serie di fortuite circostanze, la tentazione mefistofelica bussa alla porta, attirando a sé anche chi, come Roman, per anni e anni ha vissuto e lavorato percorrendo la giusta via. Una tentazione difficile da non provare e che potrebbe portare verso un’ascesa eclatante oppure, se gestita male, verso una rovinosa discesa fatta di azioni ultra vires, corruzione, denaro e potere che delinea e mostra come la legge (non) è uguale per tutti.
Sorretto dall’ottimo one man show di un Denzel Washington appesantito per il ruolo e che si muove sul grande schermo con passo dinoccolato, tuttavia End of Justice – Nessuno è innocente, visto e considerato la sua prolissità e la mancanza di ritmo (non sono pochi i tempi decisamente lenti) senza nulla togliere alla buona partenza in medias res e all’impeccabile impianto scenotecnico (l’ottima regia di Gilroy e l’abbacinante fotografia di Robert Elswit, già collaboratore in Lo sciacallo), si rivela essere una mancata opera seconda che avrebbe potuto dire molto di più in un genere di certo non bistrattato nel panorama cinematografico.