“La resa” di Finecielo è un brano che esplora il delicato momento in cui ci troviamo a mettere da parte noi stessi, sopraffatti dalle sfide e dalle difficoltà della vita. La canzone conduce l’ascoltatore attraverso un viaggio emotivo, trasmettendo la vulnerabilità e la forza intrinseche nel momento di arrendersi temporaneamente. La combinazione della poesia delle parole di Finecielo e della sua musica cattura l’essenza di un momento universale che molti possono comprendere e condividere.
Quali sfide hai affrontato quando hai iniziato la tua carriera musicale?
L’aspetto che da sempre mi richiede più attenzione ed energie è di sicuro quello dell’immagine. Il modo in cui ci si propone è diventato cruciale negli ultimi anni, dove lo stile visivo si è imposto come principale veicolo della propria personalità, e di conseguenza del proprio messaggio.
Per uno come me quindi, non abilissimo nell’uso dei social, e molto più interessato alla cura del messaggio artistico, l’approfondimento di quest’aspetto richiede un impegno ancor maggiore e molta dedizione, dato che in fin dei conti ne riconosco il valore.
La strategia che da sempre mi impongo è quella di non strafare, di puntare sulla semplicità e l’onestà: di piacere per quello che sono veramente, non per una fantomatica idea di me stesso.
C’è stato un momento difficile che hai superato e che ha contribuito a plasmare la tua determinazione?
Il momento più difficile penso sia stato proprio quello da cui è nato l’album FINECIELO.
La raccolta si configura infatti come una grande riflessione sul diventare adulti, e il periodo della mia vita a cavallo dei vent’anni ha proprio rappresentato la transizione dall’idillio adolescenziale alla ‘vita vera’, ponendomi di fronte a vari problemi nati dall’inevitabile scontro col mondo.
E’ stata la conseguente presa di coscienza che mi ha permesso di definire una nuova strada, scevra di tutto ciò che non mi appartenesse, allineata alle mie passioni e alla mia personalità.
Quali artisti o eventi hanno avuto un impatto significativo sui tuoi primi lavori?
Diamo a Cesare quel che è di Cesare. Faber.
Il primo pezzo che io abbia mai ascoltato di De André è stato Hotel Supramonte, dall’album ‘Indiano’. Un momento che ricorderò tutta la vita, prima del quale, sfegatato di musica transoceanica com’ero, non mi era mai passato per la mente che la musica italiana potesse raggiungere tali livelli di bellezza. Mi sentii quasi in colpa a non averla considerata per così tanto tempo.
Passai in rassegna allora tutto il grande cantautorato, dagli anni 70 in poi, passando per De Gregori, Guccini, fino agli artisti di fine anni 90 primi 2000, scoprendo un mondo che fino a quel momento mi era oscuro, e che rappresentava l’unione perfetta di due mie grandi passioni: la musica e la poesia.
Certo: scrivere poesie e scrivere canzoni sono due cose molto diverse, almeno per quanto mi riguarda, ma capii la portata della lingua italiana nella sua concretizzazione musicale, e mi permise di unire due mondi che fino a quel momento avevo solo parallelamente affrontato.
Quali sono state le principali influenze musicali o sonore per questo singolo?
Tutte quelle sopracitate, e nessuna in particolare.
Mi lascio molto guidare dall’istinto nella prima fase scrittura, senza nessun tipo di pattern preconfezionato o ragionamento a priori.
E’ proprio quando abbandono la ragione che posso recuperarla piano piano nella composizione di un pezzo, ma l’impeto della scrittura deve essere istintivo, deve nascere dal bisogno.
Mi accorgo solo a posteriori di quali ingredienti ha deciso di metterci dentro il mio cervello. Per fortuna uno di quelli sono sempre io.
Come hai scelto il titolo del singolo e quale significato ha per te?
Anche in questo caso, il titolo si è scelto praticamente da solo, nella scrittura.
La canzone nasce come bisogno di far chiarezza su un fenomeno per me molto impattante a livello emotivo: l’abbandono di sé stessi, inteso come deviazione dai nostri principi fondamentali, quelli che regolano il nostro incedere nella vita.
Questo fatto è strettamente legato a ciò che penso degli esseri umani in generale: ovvero che siano portatori ciascuno di un messaggio unico e irripetibile, un gesto che li contraddistingue e che li rende speciali definendone il posto nel mondo.
A tal proposito, credo che il senso della vita risieda proprio nell’onorare quel gesto, protraendolo come una sorta di ringraziamento, fino al massimo delle sue possibilità.
E’ per questo che mi colpisce molto a livello narrativo la disunione: quando ci si concede ad una piccola morte, e si getta la vita come un’occasione sprecata.
Puoi condividere alcune anticipazioni su cosa i nostri lettori possono aspettarsi dal tuo prossimo lavoro?
Partendo dal presupposto che io per ‘lavoro’ intendo sempre gli album, e non i singoli (sono vecchio stampo, lo so), quello che posso anticipare sulla nuova raccolta è che sarà diversa in termini sonori e di approccio, molto più pop-rock della prima.
Avevo bisogno di sfogarmi.
In tal senso ho recuperato il grande rock anni 70 americano, da Tom Petty a Iggy Pop, e ho cercato di adattarlo al mio stile.
Il risultato mi ha lasciato molto soddisfatto: sperò sarà così anche per voi.
Se si parla invece di lavoro ‘prossimo’, allora posso preannunciare che sto lavorando ad un videoclip molto ambizioso, che ruoterà attorno al pezzo ‘La Città’, seconda traccia dell’album FINECIELO.
Non vedo l’ora di condividerlo con voi! Rimanete connessi.