Carl Philipp Emanuel Bach, secondo figlio di Johann Sebastian, ai suoi tempi era quasi più famoso del padre. Mozart e Beethoven lo tennero per modello di pensiero musicale. Non tanto, tuttavia, per lo stile, assai diverso dal loro, quanto per il modo di concepire la composizione, di costruire cioè la forma musicale, per esempio, con l’introdurre, nella struttura della forma sonata, l’imprevedibilità dell’improvvisazione. Senza contare un’invenzione timbrica che gli fa sperimentare associazioni tra gli strumenti, o tra i registri di uno stesso strumento, già quasi preromantiche, anche se in realtà l’invenzione ubbidisce a una pianificazione formale sì apparentemente imprevedibile, ma di fatto rigorosamente illuministica nell’ossessione di derivare consequenzialmente ogni particolare dall’impostazione iniziale del brano (esemplare, al riguardo, il Concerto in mi maggiore Wq. 14). È proprio qui che si scatena la fantasia dell’improvvisazione, introducendo a sorpresa figurazioni fino a quel punto imprevedibili e tuttavia comprensibili proprio per il legame tematico con quanto precede, il quale legame è però mascherato da un’invenzione inesauribile dell’ornamentazione e della variazione: a questo punto la coerenza del discorso musicale è affidata al carattere tematico che assume l’armonia, un’improvvisa modulazione a tonalità lontane o al modo opposto (maggiore-minore e viceversa) proprio per l’evidenza del contrasto mette in luce il filo rosso che sottende all’invenzione musicale. Nella poetica del tempo, una simile ricerca rientrava nell’indagine che la musica si credeva chiamata a rappresentare dei vari stati d’animo, venivano chiamati “affetti”e le figurazioni musicali ne erano la rappresentazione. Come nelle arie del melodramma, anche lo strumento sembrava dunque capace di evocarli, anzi, come si diceva, di rappresentarli. Non di esprimerli, si badi, l’idea della musica come “espressione” dei sentimenti sarà dei romantici, ma non apparteneva alla cultura razionalistica del settecento. La musica, appunto, rappresenta i sentimenti con figurazioni musicali analoghe ai gesti dell’emozione: proprio come nel teatro, nel melodramma, l’aria condensa il gesto dell’ affetto del personaggio. La musica strumentale si fa così, nel Settecento, anch’essa drammaturgia musicale. Anzi si offre come modello di una drammaturgia esclusivamente musicale, capace di rappresentare gli affetti senza bisogno che siano enunciati dalle parole. Sono gettate in questo modo le basi per un teatro in cui il dramma non si racchiude più solo nell’aria, ma si espande anche a tutta la condotta orchestrale. Come accade in Gluck. Ma, non lo si dimentichi, come accadeva già nelle cantate e nelle Passioni di Johann Sebastian. Si pensi solo all’introduzione strumentale di quella secondo San Giovanni. Il sinfonismo si appropria delle tensioni del dramma, come, splendidamente, realizza già uno Haydn, di 18 anni più giovane, Carl Philip Emanuel è un po’ lo sperimentatore audace, spericolato di queste nuove avventure, il compositore che mostra la via. In questo sembra ereditare dal padre la necessità d’inventare sempre qualcosa d’inusitato. E non a caso sarà proprio lui a rendergli omaggio, per questo aspetto, con la pubblicazione, subito dopo la sua morte, dell’Arte della fuga. Ne scrive la prefazione dove afferma che il padre era un musicista diverso da tutti i musicisti suoi contemporanei e che per questo davvero compone una “fremde Musik”, una musica estranea, sconosciuta ai contemporanei. A questo straordinario, multiforme, compositore, che è dunque Carl Philipp Emanuel Bach, Orazio Sciortino, il quale oltre a essere pianista e direttore d’orchestra, è anche compositore, dedica ora un prezioso cd: C.P.E. Bach, Piano Concertos & other works for solo piano, hänssler classic, HC23008, € 16,99.
Sciortino affronta, in questo cd, l’interpretazione di due concerti, quello in re maggiore Wq. 43/2 – il secondo di sei concerti “per il cembalo concertato”, pubblicati ad Amburgo nel 1772 – e quello in mi maggiore Wq. 14 pubblicato a Berlino nel 1760 – , la Sonatina Wq. 96 del 1762, la Fantasia in do maggiore Wq. 61/6, che fa parte di una raccolta di vari e diversi pezzi per pianoforte, Clavier- Sonaten und Freye Fantasien nebst einigen Rondosfür Fortepiano für Kenner und Liebehaber (Sonate per tastiera e Libere Fantasie per fortepiano più alcuni Rondo per Conoscitori e Dilettanti), pubblicata a Lipsia nel 1787, Haydn due anni dopo pubblica per Artaria a Vienna una fantasia simile anch’essa in do maggiore e, infine, La Gleim, Rondo Wq 117/19, del 1756. Si tenga presente, inoltre, che il “dilettante” del Settecento non era, come di solito oggi, uno sprovveduto con scarse competenze musicali e poca familiarità con gli strumenti, ma un ottimo conoscitore della musica e spesso perfino compositore, come il re Federico II di Prussia, al cui servizio fu per qualche anno anche Carl Philipp Emanuel Bach, il soggetto dei contrappunti dell’Arte della Fuga fu proposto a Johann Sebastian Bach proprio da Federico II. L’ascoltatore può farsi da questo ventaglio di proposte un’idea della molteplicità di soluzioni formali che l’opera di Carl Philipp Emanuel Bach in maniera ancora oggi sconvolgente presenta. Ciò che colpisce il musicista moderno o il semplice ascoltatore è l’attualità di un pensiero musicale che sembra presagire le strategie delle avanguardie del secondo Novecento. Ma bisogna uscire da un’idea accademica della musica – Carl Philip Emanuel è il compositore meno accademico che si possa immaginare – vale a dire da una concezione, in Italia diffusissima, che vede la musica confinata e fissata negli stili, nei generi, per accedere invece alla reale comprensione del pensiero che sta sempre al di sotto di ogni composizione musicale. L’attacco della Nona di Beethoven non è solo quella splendida introduzione a un’intonazione solenne, marziale del tema principale, ma davvero un’introduzione al generarsi della musica. Per più battute non è percepibile il modo, se maggiore o minore, della sinfonia, solo l’ingresso del fagotto che intona un fa ci immette nella tonalità di re minore, di cui il fa, la terza, è la mediante. La quinta vuota la-mi, intonata in precedenza dagli archi, può appartenere a quattro tonalità, la maggiore o la minore, se il la è una tonica, re maggiore o re minore se il la è, come è, la dominante. L’ambiguità tonale, in un compositore che fa della precisione armonica la base di tutta la sua musica, introduce quell’indeterminatezza che fa appunto pensare a un’origine, a una nascita. Ebbene, molto spesso C.P.E, Bach si avvicina a questo modo di pensare la musica. La modulazione non è un ornamento, ma l’ossatura del discorso musicale, perché l’armonia – come in Francia aveva teorizzato Rameau – è il fondamento di ogni musica. In questo Carl Philpp Emanuel è assai lontano dalla sensibilità italiana che in genere invece attribuisce alla melodia la guida del discorso musicale. Carl Philipp Emanuel l’eredita dal padre questa sensibilità armonica e la trasmette ai suoi contemporanei e successori, soprattutto di cultura tedesca, anche se, seguendo la moda del tempo, i titoli delle sue musiche, nel frontespizio delle edizioni sono il più delle volte declinati in italiano. Perfino il nome: Carlo Filippo Emanuele. Del resto il padre talvolta si firmava Bastiano. Ed è proprio dal padre che Carl Philipp Emanuel accoglie questa preminenza dell’armonia. Il quale Johann Sebastian, però, da parte sua, ammirava di Vivaldi proprio la capacità di tirare avanti un discorso con la sola armonia, senza melodia. Le culture s’intrecciano. Tipico, in Johann Sebastian, il Concerto Italiano, o più precisamente, come recita il titolo, “nel gusto italiano”, ma che in realtà di italiano non ha quasi niente. L’Andante centrale dovrebbe esporre un tipico melodizzare italiano. In realtà Bach compone, al basso, un vero e proprio soggetto di contrappunto, quasi la melodia di una passacaglia, e sopra la mano destra intesse le fioriture di una melodia interminabile. L’ossessione di Bach: far coincidere melodia, contrappunto e armonia, di modo che l’armonia stessa sembri regolata dal contrappunto ma a sua volta il contrappunto ubbidisca all’andamento dell’armonia, e la melodia dunque resti imbrigliata tra le maglie dell’una e dell’altro. Che poi l’effetto sia di una libertà melodica sovrana è l’esito di un magistero tutto bachiano: in nessun altra musica melodia, armonia e contrappunto trovano un equilibrio così perfetto. Si ascolti, ora, nel cd, il Poco adagio del Concerto in mi maggiore del figlio Carl Philipp Emanuel. L’andamento può infatti ricordare il Concerto Italiano del padre. Ma come un’ombra, come un’evocazione. Ciò che realizza Carl Philipp Emanuel è altro. Si tratta di un lungo, struggente lamento. E che debba essere un lamento lo si avverte subito, perché il campo armonico di mi maggiore qui diventa di mi minore. Modulazione modale, come sarà tipica di Schubert. E scatenata fantasia ornamentale, che sarà una delle caratteristiche di Chopin. Ma sia Schubert, sia Chopin, come Carl Philpp Emanuel legano il canto, l’esibizione quasi narcisistica del canto, alla logica della condotta armonica. E in questo, sia Schubert, sia Chopin, checché se ne sia detto e se ne sia scritto, sono abissalmente lontani dal melodizzare italiano, legati come sono entrambi alla condotta armonica e contrappuntistica della tradizione tedesca. Che qui, nei Concerti di Carl Philipp Emanuel Bach, tocca una dei vertici dell’audacia indagatrice di zone inesplorate dell’armonia. E del ritmo. Nella Fantasia quasi non c’è tema, c’è solo ritmo. Ritmo e vagabondaggio armonico che rasenta la libertà e l’imprevedibilità dell’improvvisazione. Proprio su questo punto si concentra l’interpretazione di Orazio Sciortino. Recupera perfino la libertà d’improvvisare cadenze non scritte. Qualche leguleio dell’esecuzione storicamente informata potrà storcere il naso. Ma sbaglierebbe. Emilia Fadini, mirabile interprete al clavicembalo della musica rinascimentale e barocca, curatrice di una splendida edizione critica della Sonate di Domenico Scarlatti, affermava che il rispetto delle prassi esecutive non basta. Nella prassi antica e barocca c’era anche la libertà dell’esecutore, e noi dovremmo essere in grado di riacquistarla questa libertà. Come del resto teorizzava Frescobaldi. Certo, è una sfida, un rischio. Ma una interpretazione che non accetti la sfida, che non affronti il rischio di uscire dai binari, che interpretazione è? La musica è materia viva, non lettera morta. La libertà, Sciortino, se la sente circolare nelle vene. Infinite le sfumature del tocco, irrigimentabili le flessioni del fraseggiare, i respiri delle fresi. Ma poi tutto sembra tornare a posto, rendersi comprensibile. Le pause improvvise che aprono voragini. L’improvviso mutare dell’intensità: un pianissimo che segue un forte e viceversa. L’occhio del lettore e l’orecchio dell’interprete coincidono. Occhio e orecchio di un compositore che leggono e ascoltano la scrittura di un altro compositore come se fosse la propria e la vivisezionano e la ricostruiscono come se venisse composta nell’atto di essere eseguita. Che poi era l’arte dell’improvvisatore settecentesco, Haydn, Mozart, Beethoven e già entriamo nel secolo romantico, e ci pare d’intravedere e di ascoltare Chopin, Schumann, Liszt. Ascoltiamo invece Carl Philipp Emanuel Bach, diversissimo e dai suoi contemporanei e dai romantici. Ma con questa febbre comune a tutti di suonare e ripensare la musica suonando come nascesse sotto le dita per la prima volta nell’atto di suonarla. La volta successiva si avrà forse, probabilmente, un’interpretazione diversa. Ma non per questo meno vera. L’arte dell’interpretazione non è la ripetizione del già noto ma l’invenzione dell’ignoto. Beethoven è vero che lo suoni Backhaus, Schnabel, Richter o Rubinstein. Il Mahler di Boulez non è meno vero del Mahler di Scherchen, di Bernstein. Omero non lo leggiamo con l’occhio e con la mente di un Ateniese del VI secolo a.C., quando Pisistrato ne fece pubblicare un’edizione definitiva, e già allora il greco del VI secolo non era un contemporaneo di Omero, vissuto due secoli prima. Smettiamola con l’Accademia dell’autenticità. Smettiamola, anzi, con l’Accademia, con ogni tipo di Accademia. In Italia poi tutto tende sempre a farsi accademia. A rispettare abitudini, convenzioni, ideologie, opinioni di scuole e di consorterie l’una contro l’altra armata. È autentico non ciò ch’è dichiarato tale, che poi in una società inautentica come l’attuale non si capisce che cosa sia, bensì ciò che sentiamo coerente. Posso anche suonare un pianoforte Silbermann, ma se resto scolasticamente rispettoso meccanicamente del metronomo, se non mi curo del fraseggio e se costringo le frasi nella griglia di una scansione matematica, se non differenzio il tocco, allora non sono niente e non faccio musica, ma strimpello una musica inesistenrte. Mozart si vantava che la sua sinistra non andasse mai d’accordo con la destra. La meraviglia di questa incisione che Sciortino ci regala di alcune musiche di Carl Philipp Emanuel Bach sta, invece, proprio nella libertà con cui l’interprete ci restituisce la libertà di quella musica: libertà, si badi, e non arbitrio, l’aderenza alla scrittura è più che meticolosa, si ascolti la fantasia, ma anche il rigore, con cui sono risolti mordenti e trilli. È il respiro ch’è libero, non la traduzione in suoni della scrittura, ma l’ascolto, già alla lettura, del suono che è ficcato nei segni dei suoni scritti sulla partitura: Schumann dice che quando si legge una partitura bisogna sentirne nella mente il suono e un vero interprete lo sente sempre. Il paradosso, alla fine, è che si ascolta una musica che ha tutta la limpidezza razionalistica di una musica dell’Età della Ragione, ma anche, di quella età, la capacità di penetrare, con il pensiero musicale, le emozioni, i sentimenti, al punto di farcela sentire, la musica, come musica contemporanea. Una Ragione che indaga il Vero, l’interprete che suona, e non una Ragione che lo gela, lo fissa in schemi che hanno l’inerzia del ghiaccio. Ma qui si aprirebbe tutto un altro discorso: il Settecento non è, infatti, un secolo razionalistico, ma un secolo che con la Ragione ha voluto indagare e conoscere ciò che Ragione non è. Pascal, un secolo prima, lo aveva detto chiaramente: il cuore ha ragioni che la Ragione non conosce. Ed è la Ragione di questo Cuore che Sciortino penetra, afferra, e ci restituisce. Illuminanti, nel booklet, le note di Luca Ciammarughi.
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