C’è una grande confusione, soprattutto tra i musicisti, tra estetica e poetica. La poetica è l’idea che dell’arte ha ogni artista. Naturalmente, della propria arte, di ciò che ritiene debba essere l’arte. L’estetica, invece, è la riflessione su che cosa sia arte, soprattutto su che cosa, storicamente, è stato via via ritenuto arte. La poetica è l’idea che dell’arte ha l’artista. L’estetica, quella su cui riflettono lo storico e il filosofo. Lo sguardo dell’artista è individuale. Quella del filosofo o dello storico che riflettono su quanto consideriamo arte, cerca, per quanto è possibile, di distaccarsi da ogni prospettiva individuale per studiare il panorama generale delle manifestazioni che chiamiamo arte. Ovvio che anche nello storico, anche nel filosofo possa avere il suo peso la personale concezione di che cosa sia arte. Ma in genere sia lo storico sia il filosofo tentano di guardare da una prospettiva più generale o, se mai, dichiarano che la propria riflessione nasce da una propria visione dell’arte. Sta qui la differenza tra poetica ed estetica. Ora, è assolutamente legittimo che ciascun artista abbia una sua poetica, vale a dire una propria, spesso ristretta, esclusiva idea di arte. Non è legittimo, invece, che consideri la propria poetica un’estetica e voglia pertanto attribuirle un valore prescrittivo generale: quello che faccio io è arte, chi la fa in modo diverso sbaglia, non fa arte. Errore in cui talora cadono, è vero, anche storici e filosofi (per esempio Adorno), quando scambiano la propria concezione dell’arte per la natura universale di qualsiasi arte. Esemplare, tuttavia, già nell’antichità Aristotele, il quale osserva che le tragedie in genere rappresentano l’azione che si svolge in un giro di sole. Fa una constatazione, documenta un fatto, non prescrive un obbligo: che la tragedia debba svolgersi nell’arco di una sola giornata. Anche perché sa che invece non è così. E sull’unità di luogo, poi, non dice niente. Perché sa che nel teatro a lui noto i drammaturghi cambiano talora il luogo dell’azione: per esempio Eschilo nelle Eumenidi e Sofocle nell’Aiace. Le cosiddette regole aristoteliche della tragedia non sono dunque di Aristotele. Aristotele, del resto, non dice niente nemmeno sull’esito del conflitto. La tragedia non è, per lui, un’azione che finisca tragicamente, con la morte o la sconfitta dell’eroe, bensì, appunto, solo la rappresentazione di un conflitto. Spesso insanabile, certo. Ma non sempre. Non, per esempio nell’Ifigenia tra i Tauri di Euripide, tragedia da lui ammirata. L’unica prescrizione che gli sembra necessaria perché ci sia una costruzione artisticamente valida non già della tragedia, bensì di ogni genere di scrittura, poema, poesia, ditirambo, ecc., è quella dell’unità d’azione: l’Iliade non racconta tutta la guerra di Troia, ma solo il conflitto sorto nel campo Acheo tra Agamennone e Achille, e le sue conseguenze sugli esiti della guerra. Ma queste annotazioni e osservazioni storiche di Aristotele – il filosofo meno sistematico che si possa supporre anche se la tradizione poi lo inquadra come filosofo sistematico – diventano sistema, obbligo, regola nel classicismo rinascimentale italiano e poi in quello del Seicento francese. Non in Inghilterra e nemmeno in Spagna. E tuttavia lo stesso Shakespeare talora vi si adegua, come nella Tempesta, la cui azione si svolge in un’isola nell’arco di una sola giornata. Che la tonalità sia l’elemento fondante di ogni musica lo credeva Rameau. Ma la musica precedente a Rameau e quella di altre culture che non siano la cultura europea ignorano il sistema tonale, adottano altri sistemi. Nel novecento il sistema entra in crisi. Non è l’arbitrio di qualche singolo visionario, ma l’effetto di una tradizione che nasce all’interno dello stesso sistema tonale. Alla crisi si danno, nel Novecento, risposte diverse, da diversi artisti: qualcuno rispetta, sembra, il mondo tonale o la adegua a nuove esigenze costruttive, altri decidono di farne a meno o d’inventarsi altri sistemi. Nascono, spesso, contrapposizioni, e ciascuno vuole imporre il proprio sistema come l’unico valido. La storia, per tutto il secolo, sembra avere risposto diversamente. Nel senso che coesistono diversi sistemi. Ciascuno ha il suo diritto di validità, purché non pretenda d’imporsi come l’unico legittimo, anzi, più distortamente, come l’unico “naturale”. Perché in arte niente è naturale, ma tutto è artificio. Sbagliavano dunque le avanguardie quando volevano porsi come l’unica via di uscita a una crisi reale, ma sbagliavano ugualmente quanti sostenevano che le invenzioni delle avanguardie fossero artificiose: o, più precisamente, le avanguardie sbagliavano solo nel voler imporre come generale una prospettiva parziale, e personale, non nel fatto di adottarla, e spesso con risultati eccelsi. Ma sbagliano, probabilmente, oggi, chi vuole perpetuarne l’adozione e dei sistemi delle avanguardie farne di fatto un’accademia. Ma sbaglia altresì chi nega ogni validità a quanto le avanguardie hanno condotto alla luce. La via da seguire non ha regole, né in un senso né in un altro. Sta alla consapevolezza e soprattutto alla conoscenza di ogni artista scegliere quale via sia per lui la migliore. Per lui: non per tutti. Se poi si obietta che il pubblico non lo segue, è un falso argomento. Perché riguarda la ricezione dell’opera, non la poetica che l’ha fatta nascere. E anche su questo c’è molta confusione. Ma è un discorso ancora più lungo e complesso di quello sulla differenza tra poetica ed estetica. A tutti piacerebbe avere uno stadio che applaudisse la propria musica. Ma ciò non riguarda minimamente il valore della musica.
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