Mi piace scrivere qualche rigo sull’ultima canzone del cantautore romano Francesco
Manfredi, Luna. Ecco il link per ascoltarla cantata da lui stesso:
È veramente una bellissima canzone. Non si dovrebbe mettere sulla tavola subito tutte le carte, bisognerebbe essere prudenti nei giudizi, anzi forse nemmeno giudicare, ma solo introdurre, chiarire, illustrare. Se mi espongo subito, con un giudizio così esplicito è perché penso che corrisponda alla realtà. Ascoltatela e riascoltatela. Poi leggete quanto scrivo.
Seguo Francesco Manfredi da anni, la sua poetica musicale si evolve, com’è naturale per tutti, ma la sua sostanza, il suo nucleo ispiratore non cambia. Il modo che ha assunto Francesco Manfredi di presentarsi come cantautore italiano è, se lo si ascolta con attenzione, in controtendenza. Non cerca argomenti di moda o di successo, non propone stili musicali all’ultimo grido, folk, rock o rap rivisitati, o quant’altro.
Gli ultimi arrivati, oggi, in Italia, o almeno quelli di successo, sembrano avere perso la voglia di cantare, d’inventare melodie: e per melodia intendo non già una linea melodica riconoscibile o quella specie di canto confidenziale che ripete Lucio Battisti da decenni senza sfiorarne mai la fantasia, l’adeguarsi miracoloso del canto al respiro della parola. Francesco Manfredi sembra invece possedere una sorta di dono innato della melodia. Non voli pindarici, non melodie a sé stanti, indipendenti dalle parole, per favore niente che faccia sospettare il neomelodico. Ma melodie che nascono dalle parole, dalla prosodia stessa delle parole, che oltretutto è antica tradizione italiana, sia sul piano della cosiddetta musica “colta” (come se l’altra fosse ignorante), andando indietro fino a “È sì bello il tormento” di Claudio Monteverdi, sia sul piano della musica così detta “leggera” o “d’intrattenimento” (come se l’altra, quella “colta” ignorasse la leggerezza e risultasse pesante, o fosse incapace di intrattenere piacevolmente l’ascoltatore), che so, per sempio, appunto, Lucio Battisti o Fred Buscaglione (cito nomi a caso).
Ciò che caratterizza le canzoni di Francesco Manfredi è proprio l’aderenza puntigliosa della melodia al testo, come se già il testo avesse, nelle parole, una melodia da suggerire, fosse appunto esso stesso già una melodia. E questo accade anche quando alcune delle sue canzoni sembrano la rievocazione o, meglio, la reinvenzione di quella specie di ballate che raccontano storie, e chi le canta un cantastorie che gira per le strade a intrattenere la gente, affiancato da musicisti che insieme a lui improvvisano il tessuto strumentale che regge la canzone.
L’andamento di canto popolare è reinventato, la storia si fa fiaba moderna, canto dell’oggi: un ragazzo che vuole far colpo sulle ragazze con un “gippone”, la tipica mania italiana di fare colpo con l’apparenza invece che con la realtà, o il granchio che vuole suonare il violino ma la chela è troppo grande e ha solo due dita, o, infine, il provolone che dentro il camion frigorifero che trasporta formaggi s’innamora della mozzarella.
Dietro l’ironia, dietro la seduzione, il piacere del canto, spunta, però, un giudizio sulla società italiana di oggi. Tutt’altro che benevolo. È anche questo un modo di giudicare l’insulsaggine dell’Italia attuale, ributtarle in faccia il piacere che ha perduto di cantare melodie: farle da specchio cantando le sue storie talora poco edificanti (il pappone che vuole promuovere la puttana conducendola alla RAI), ma per nulla disgustose, si badi, bensì quotidiane, umili, si direbbe piccolo-borghesi, sprovviste di grandi aspirazioni. Insomma, l’Italia di oggi. Non so di chi, se degli dei, della Fortuna, del Caso, o di questo paese così smemorato, ma Francesco Manfredi è un regalo delle Muse: vuol dire che da qualche parte chi governa il destino del mondo ha ancora pietà di noi. È una gioia incommensurabile quella che Francesco ci regala ogni volta che ci canta una sua nuova canzone. Non è fuffa, quella che per lo più ci assale ogni giorno nei centri commerciali, alla radio, alla televisione, non è sbrodolatura di autocommiserazione – il nostro difetto nazionale -, ma gioia, la vera gioia di riconosce dove c’è, perché il ritmo è scontato e la melodia inesistente. Si ascolti la canzone, si segua il testo, il rapporto del testo con la melodia: ci si accorgerà che è costruita su un modulo ricorrente, uno spazio modale che si ripete, una quarta che via via si dilata e si restringe, non supera l’ottava, e il ritmo ubbidisce alla scansione delle parole. E le parole raccontano una storia di terribile, disperata attualità: il viaggio dei migranti nel Mediterraneo alla ricerca di un posto dove vivere meglio, speranza il più delle volte delusa. Ma per chi volesse saperne di più, c’è un sito, il sito di Francesco Manfredi:
https://www.youtube.com/user/fungosound
Ma poi, tra le molte proposte del sito, ascoltatevi questa:
Sono un italiano,
che ci posso fare?
Vivo solo per mostrare.